Da: La Storia dell’Alpinismo
di: Gian Piero Motti.
Volume 2
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1926 - Willy Welzenbach studiò e propose una scala delle difficoltà alpinistiche e nel giudizio ci si regolava con aggettivi un po’ vaghi come <<facile, difficile, straordinariamente difficile>>.
Senza anticipare i tempi, possiamo solo dire che Welzenbach creò una scala in sei gradi dove il sesto ed ultimo grado costituiva il “limite delle possibilità umane” ed era rappresentato dalla via Solleder al Civetta.
L’errore filosoficamente fu marchiano e dette origine ad una lunga serie di malintesi su cui solo oggi si comincia a fare un po’ di luce. Infatti, prima di tutto vi era l’errore grossolano di porre un limite all’attività umana. Ma, ammesso che questo limite vi sia e si possa costruire una scala “chiusa” e definita e quindi non aperta all’infinito come suggerirebbe la logica, se il sesto grado è il limite delle possibilità dell’uomo ne risulta che tale grado è evidentemente insuperabile, altrimenti se lo fosse l’uomo avrebbe superato l’uomo e non sarebbe più uomo.
Inoltre, se la parete Nord-ovest del Civetta (via Solleder) rappresenta in pratica questo limite, ogni via futura più difficile avrebbe superato il limite giungendo all’assurdo di cui sopra.
L’analisi di Welzenbach fu frettolosa e superficiale e non tenne conto della storia e dell’evoluzione. Ma vi fu di peggio – anche se dobbiamo ammettere in Welzenbach il merito e la buona fede di aver studiato un sistema di valutazione che si rivelasse utile ed universale – perché nel sesto ed ultimo grado vennero incluse tutte quelle ascensioni durante le quali si faceva abbondante uso di chiodi, insomma quei passaggi dove si saliva in artificiale non in arrampicata libera. La confusione che ne derivò fu enorme, perché non si fece fin dall’inizio una netta distinzione (come poi sarà fatta dagli alpinisti francesi negli anni Cinquanta) tra arrampicata libera ed arrampicata artificiale, tra chiodi di assicurazione e chiodi di progressione. Si giunge ad un assurdo: l’arrampicata libera, che è più rischiosa e difficile di quella artificiale, si valutava fino al V grado, mentre i passaggi dove si ricorreva all’uso di chiodi – che sono certamente faticosi, ma assai meno rischiosi e soprattutto, se i chiodi restano infissi, perdono per i ripetitori, gran parte della loro primitiva difficoltà, mentre l’arrampicata libera non muta mai il valore – vennero inclusi nel sesto grado se non addirittura nel sesto superiore!
Furono proprio gli alpinisti francesi, che durante alcune campagne compiute in Dolomiti si trovarono di fronte a questo problema: dove la nota tecnica indicava quinto grado dovettero superare passaggi di estrema difficoltà in libera arrampicata, invece dove si leggeva “sesto superiore” essi salirono piuttosto in fretta e facilmente, con l’ausilio dei chiodi già trovati in parete.
L’errore più grande sta dunque nell’aver “bloccato” l’evoluzione del numero sei. L’ideale sarebbe stata una scala aperta all’infinito, dove il numero sei rappresentasse la massima difficoltà superata negli anni Venti, ma che poteva poi essere superata dal numero sette, dal numero otto e dal numero nove degli anni successivi. Se invece si volesse mantenere una scala chiusa e rappresentare il numero sei come limite, allora prima di tutto tale grado è irraggiungibile ed insuperabile (a meno che l’uomo non si trasformi in qualcosa di superiore a se stesso), ma soprattutto si richiede un faticosissimo lavoro di aggiornamento delle guide alpinistiche, in quanto la valutazione compiuta precedentemente deve essere a mano a mano ridotta, ridimensionata e svalutata di fronte ad imprese più difficili.
In California si è giunti ad un compromesso intelligente, ossia si è mantenuto il numero sei come limite e ci si avvicina a questo con una gradazione progressiva verso l’infinito (5,9 – 5,10 – 5,11 – 5,12) dove si potrebbe per assurdo giungere a 5,9999999…. Ma non a sei.
Nel novembre del 1978 l’UIAA (unione Internazionale delle Associazioni di Alpinismo) ha riconosciuto ufficialmente il VII grado, ma soltanto dieci anni dopo 1988 ha aperto la scala verso l’alto riconoscendo anche i gradi superiori al VII.
Willy (o Willo) Welzenbach, che già abbiamo citato parlando della scala delle difficoltà da lui proposta, sebbene rocciatore di altissimo livello, è soprattutto ricordato come il più grande ghiacciatore di tutti i tempi. Egli fu il primo a portare le tecniche e la mentalità della “Scuola di Monaco” sulle pareti di ghiaccio e di misto delle Alpi Occidentali, Centrali e Orientali, raggiungendo dei risultati veramente stupefacenti. Le difficoltà che Welzenbach riuscì a superare sul ghiaccio erano nettamente superiori a quelle fino allora vinte su quel terreno. Anche se oggi la tecnica moderna e soprattutto i materiali altamente specializzati hanno permesso di vincere pendenze ancora superiori, tuttavia le imprese di Welzenbach sono rispettabilissime e costituiscono un severo banco di prova per gli appassionati delle “pareti Nord”.
Imprese come la Nord del Grosses Weissbachhorn, del 1923, dove addirittura fu superato uno strapiombo di ghiaccio con l’uso di doppia corda e chiodi da ghiaccio.
Come la Nord della Dent d’Hérens, nel 1925, forse la più grande impresa di Willy Welzenbach e oggi una delle più dure salite di ghiaccio di tutte le Alpi tanto che conta pochissime ripetizioni.
Come la Nord del Grosshorn.
La Nord-ovest del Gletscherhorn.
Come la Nord dei Grands Charmoz, una delle pareti più tetre ed insidiose di tutta la catena alpina, testimoniano ancora oggi l’audacia ed il livello tecnico raggiunto da Welzenbach in quegli anni.
Il suo formidabile contributo dato all’evoluzione dell’alpinismo occidentale permise in seguito di poter realizzare e concepire imprese come la Nord delle Grandes Jorasses e la Nord dell’Eiger.
La difficoltà di queste imprese oltre che essere tecnica è anche e soprattutto psicologica. Le “pareti Nord”, a differenza delle arrampicate su roccia che sovente sono attraenti e solari, sono fredde, tetre e repulsive. I pericoli di scariche di ghiaccio e di sassi sono sempre presenti e determinano una grande tensione emotiva. Non vi è forse il vuoto della roccia, ma la pendenza, fortissima ed uniforme, degli scivoli di ghiaccio è forse ancor più impressionante.
L’alpinista su questi terreni deve essere veramente completo in tutti i sensi e deve contare su un’esperienza provata che gli permette di intuire il cammino tra le molte possibilità che la parete gli offre.
Inoltre procedere per ore equilibrandosi sulle sole punte dei ramponi su pendii di ghiaccio inclinati a 50 e 60 gradi richiede all’alpinista una sicurezza interiore ed una calma a tutta prova, in quanto l’assicurazione su questi terreni è piuttosto aleatoria e più che altro deve valere la sicurezza interiore.
Ancora oggi, quando di guarda una “parete Nord” salita da Welzenbach, si resta ammirati dell’audacia che gli permise soltanto di concepire, prima di realizzare, la salita di quei versanti glaciali.
Nella storia dell’alpinismo di tutti i tempi egli resta dunque uno dei più grandi, uno degli innovatori che seppero portare il discorso ad un livello nettamente superiore, aprendo poi il cammino ad imprese che al tempo parevano irrealizzabili.
Ciò che Dulfer e Solleder seppero fare sulla roccia; Welzenbach fece sul ghiaccio e su misto: per molto tempo il suo coraggio e la sua tecnica non potevano che essere imitati prima di essere superati.
Willy Welzenbach (1900 – 1934), come il grande Mummery, scomparve sulle pendici del Nanga Parbat, (8125 m.) una montagna che i tedeschi si rivelerà funesta e disastrosa, teatro di terribili sciagure alpinistiche in cui perirono molti tra i migliori rappresentanti dell’alpinismo germanico.
Tanto che il Nanga Parbat divenne per i tedeschi quasi un fatto nazionale, una montagna che “doveva” essere salita dai tedeschi. Ed infatti, come già sappiamo lo fu, nel 1953, da Hermann Buhl.
Willy Welzenbach. Grande alpinista tedesco, innovatore per le ascensioni delle pareti Nord di ghiaccio e misto in linea diretta (con questo stile sali la Dent d'Hérens, le Aiguilles des Grands Charmoz, il Grosses Wiesbachhorn e cime dell'Oberland Bernese). Morì nella bufera durante la spedizione del 1934 al Nanga Parbat.
Fu in Gran Bretagna dove si provò, per la prima volta, ad elaborare una scala delle difficoltà alpinistiche. Era il 1897, e Owen Glynne Jones propose nel suo “Rock climbing in the Lake District” una classificazione delle salite su roccia basata su quattro gradi di difficoltà, dividendo le sessanta vie esistenti nella Regione in: Facili, Moderate, Difficili, Eccezionalmente Severe. Fu questo, probabilmente, il primo serio tentativo di creare una scala delle difficoltà d’arrampicata. Successivamente, anche grazie all’introduzione del moschettone e del chiodo da roccia, ad inizio novecento, ci fu uno sviluppo notevole nel superamento delle difficoltà e l’esigenza di una scala di valutazione che tenesse conto di quell’evoluzione divenne ben presto un problema che, nonostante vari tentativi e proposte, avanzate da più parti (soprattutto da ambienti alpinistici tedeschi ed austriaci), rimase aperto per almeno un paio di decenni. Fu dopo la prima guerra mondiale, con la comparsa di un personaggio di comprovata capacità tecnica e grande e riconosciuta esperienza, che si arrivò all’elaborazione di una scala delle difficoltà alpinistiche, sviluppata su sei gradi e unanimemente accettata e riconosciuta. Per conoscere il “padre” di questa scala non c’è di meglio che leggere nelle pagine di “Sesto Grado” (Longanesi editore–1971) cosa ne scrive, con stile incisivo, il giornalista Vittorio Varale.
“Chi è questo Welzembach, l’ingegnere Wilhelm Welzembach, chiamato Willo dagli amici, da Monaco di Baviera? E’ l’alpinista che per il complesso delle imprese compiute e per l’affermarsi della sua personalità, riempie di sé il quindicennio che va dalla fine della guerra mondiale (1919) alla sua scomparsa sul Nanga Parbat (1934) in una delle più spaventose catastrofi himalaiane che si ricordino. Chi fosse, quanto vasta la sua esperienza, all’epoca in cui si comincia a parlare della sua scala sono pochissimi gl’italiani che ne hanno sentore. Neanche gl’inglesi, sempre tradizionalisti, né gli svizzeri se ne sono occupati; e in quanto alla nostra Rivista Mensile essa non si è neppure accorta di quella bagattella che è la parete Nord-Ovest del Wiesbachhorn negli Alti Tauri, Alpi Orientali, conquistata da una cordata tedesca condotta appunto da Welzembach (1923). Eppure, si tratta d’una scalata storica: per la prima volta sul ghiaccio si è fatto uso dei chiodi e dei moschettoni, e della speciale tecnica della doppia corda per traversare sotto strapiombi soltanto in tal modo aggirabili. E’ la tecnica appresa sulle pareti calcaree di casa, e che di lì a poco (1931) sarà applicata anche da Hans Ertl sulla Nord dell’Ortles. Per aprire la diretta Nord su un altro colosso alpino, questo nell’Oberland bernese, ch’è il Grosshorn, Welzembach e i suoi compagni devono tagliare 3000 gradini nel ghiaccio vivo e bivaccare due volte, la seconda in vetta. Colleziona glaciali pareti Nord sui 4000; ripete in quattro ore quella del Lyskamm, apre la diretta sulla Dent d’Hérens, di 950 metri. In roccia ha esperienza diretta di quanto si è fatto sino a quell’epoca. Nelle Dolomiti effettua più d’una campagna. A scala compilata va nel massiccio del Bianco: su granito sale la Terza Torre della Cresta Sud della Noire del Peuterey, alla quale verrà dato il suo nome; vince la Nord dei Grands Chamorz con Merkl, dopo tre giorni di lotta. Dopo la sua morte (il corpo è rimasto lassù sul Nanga Parbat) i suoi amici del Corpo Accademico gli dedicano un libro che rintraccia la sua mirabile vita: in quattordici anni 940 ascensioni, 72 vette sopra i 4000 metri, 50 prime, di cui 30 in roccia. Ha di comune coi suoi connazionali alpinisti la sbrigatezza nella decisione d’iniziare un’ascensione anche se i presagi atmosferici sono sfavorevoli. Per la sua esperienza tecnica, per la sua conoscenza storica è riconosciuto l’esponente più qualificato per trattare a fondo il problema della graduazione delle difficoltà in montagna. Naturale, dunque, che ch’egli si costruisca la certezza che quello che viene indicato al grado massimo col termine <ausserst shwierig> (estremamente difficile) non può continuare a rappresentare il limite che blocca l’estremo in fatto di progressione in roccia. Si può, si deve andare oltre i termini in uso per indicare le massime difficoltà raggiunte anteguerra da Dibona poi e poi da Dulfer.
Quella “scala Welzembach”, elaborata nel 1926, è rimasta valida per ben mezzo secolo e, ancora oggi, costituisce la base della moderna classificazione e fa del suo ideatore, senza alcun dubbio, un “grande” dell’alpinismo e non solo per le capacità tecniche.
1923 - 11 agosto. Willo Welzenbach si cimentò sul Cervino per la cresta di Zmutt e quella del Leone in compagnia di Eleonore Noll-Hasenclever e Hans Pfann.
1925 - La Nord della Dent d’Hérens, forse fu la più grande impresa di Willy Welzenbach e oggi una delle più dure salite di ghiaccio di tutte le Alpi tanto che conta pochissime ripetizioni.
1925 - 24 luglio. Eugen Allwein e Willy Welzenbach, per la Cresta Sud salgono la Terza Torre dell’Aiguille Noire de Peutérey che prenderà il nome di uno dei salitori: Punta Welzenbach (3355 m.), realizzando la 1° ascensione della stessa. - Contrafforti Italiani - Massiccio del Monte Bianco.
1930 - 26/27 agosto. I tentativi di salita per la Cresta Sud dell’Aiguille Noire de Peutérey furono avvincenti e ricchi di storia, la salita riuscì finalmente a due giovani alpinisti di Monaco Karl Brendel e Hermann Schaller.
I tentativi iniziarono con l’ascensione del Pic Gamba di Paul Preuss con il Conte Ugo di Vallepiana nel 1913, e sempre nel 1913 la cordata Angelo Dibona, Guido Mayer e Max Mayer salirono fino alla parete della 2° Torre (Punta Bifida) da dove scesero per maltempo; Eugen Allwein e Willy Welzenbach nel 1925 salirono fin sulla 3° Torre (Punta Welzenbach). Poi si spinsero più in alto le guide di Courmayeur: Laurent Grivel, Arturo Ottoz e Osvaldo Ottoz, i primi due anni anche con Albino Pennard (nel 1928, 1929 e 1930) fino all’ultimo risalto della Punta Brendel; essi scesero anche dalla vetta esplorando fino alla 5° Torre (Punta Ottoz). Nel 1930, senza tentativi, la salita riuscì a Karl Brendel e Hermann Schaller. - Contrafforti Italiani - Massiccio del Monte Bianco.