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Gian Piero Motti – (1946-1983) - CAAI

 

 

Gian Piero Motti nacque a Torino il 6 agosto 1946. Si accostò giovanissimo alla montagna e nel 1972 venne ammesso nelle file del Club Alpino Accademico Italiano. L'anno seguente entrò a far parte anche del GHM (Groupe de haute montagne) francese e, a metà degli anni Settanta, aveva alle spalle una notevole attività alpinistica nella quale spiccano la prima solitaria del Pilier Gervasutti al Mont Blanc du Tacul, altre ripetizioni di rilievo nel Gruppo del Bianco (una tra tutte: la Cassin sulla Nord delle Grandes Jorasses), salite di grosso impegno tecnico in Dolomiti (come lo Spigolo degli Scoiattoli della Cima Ovest di Lavaredo), numerose prime invernali e un'importante attività di ricerca sulle pareti delle valli piemontesi. Un curriculum da far invidia ai più accaniti collezionisti di salite che è tuttavia rimasto almeno in parte nell'ombra, in pratica oscurato dall’ingente mole di articoli, monografie, introduzioni, traduzioni, opere di grande respiro alle quali Gian Piero Motti lavorò con alacre puntiglio e a cui è legata la celebrità di quell'uomo “alto, fragile e bello” – sono parole di Andrea Gobetti – che nella notte tra il 21 e il 22 giugno 1983 decise di lasciarci e di tornare tragicamente, di propria volontà, da dove era venuto.

Il percorso di Gian Piero Motti rappresenta un fatto unico e straordinario nella storia dell'alpinismo, un cammino del tutto personale che, come spiega ancora Alessandro Gogna «si mosse da alcune domande fondamentali sul passato e sul presente, riferite ovviamente anche alla montagna. La svolta decisiva avvenne il 15 giugno 1975 quando egli ebbe, ricercata, un'esperienza visionaria mentre si trovava nella sua amata Val Grande di Lanzo. Dopo quel momento molti si resero conto che quell'uomo “aveva visto” più degli altri e “sapeva” più degli altri». Se è vero che lui stesso riconobbe che l'esplorazione delle montagne era stata compiuta da due categorie di alpinisti, quelli “del pensiero” e quelli “dell'azione”, e che egli potrebbe a prima vista rientrare a pieno titolo nel secondo gruppo, ad un'analisi attenta il nostro protagonista trascende una distinzione che appare piuttosto scontata. Gian Piero Motti comprese che l'alpinismo non era soltanto ciò che tutti vedevano, raccontavano o praticavano: scendendo oltre la ruvida superficie si poteva scoprire come fosse un'allegoria del mondo e della vita, una sorta di punto d'osservazione privilegiato dal quale scrutare con attenzione fatti ed accadimenti di ogni genere. Le parole di Ivan Guerini, per molti soltanto l'artefice di alcune grandi vie della Val di Mello ma in verità instancabile “lettore” della roccia, in grado di sviscerare il senso più recondito delle cose (basta un'affermazione apparentemente banale per procurare la sua incredibile reazione che, spesso, si materializza in interminabili conversazioni telefoniche), le parole di Ivan Guerini, dicevamo, sono a questo proposito illuminanti: «Per la semplicità del suo modo di scrivere – spiega il primo salitore di Oceano irrazionale -, coadiuvato da una formidabile lucidità analitica e da una perspicace capacità deduttiva, Gian Piero Motti riuscì a farsi strada con sapienti collegamenti fino al senso delle vicissitudini storiche più velate e complesse. Avendo ben chiaro ciò che voleva dire, più che trasferire nell'alpinismo i concetti acquisiti tramite le sue letture che spaziavano in diversi campi culturali, egli interpretò fatti non indagati arrivando a far luce sui punti dubbi e oscuri della storia». Gian Piero Motti, in altri termini, come chiarisce Roberto Mantovani, attuale direttore della Rivista della Montagna, «ebbe il coraggio di esplorare una dimensione che non era soltanto alpinistica e si lanciò in un mondo complesso, scoprendo ciò che risulterebbe difficile da spiegare: spinse il suo sguardo oltre i presunti confini della ricerca storica e intuì ciò che tutti ignoravano. Dipinse panorami nuovi e divenne una sorta di profeta, un uomo in grado di comprendere ciò che sarebbe accaduto in seguito al ‘tradimento’ del “Nuovo Mattino”».

Molti lo conoscono attraverso i suoi scritti, tra i quali ve ne sono alcuni diventati punti di riferimento per un'intera generazione di alpinisti. Ma cosa ha veramente voluto comunicare Gian Piero Motti attraverso pagine memorabili come Riflessioni, I Falliti, Il Nuovo Mattino, Zero the Hero o Arrampicare a Caprie? Una risposta completa sarebbe troppo complessa e richiederebbe un'analisi attenta di ognuno degli articoli citati: diremo soltanto che Gian Piero Motti, attraverso una meditata provocazione, voleva presentare un modello di alpinismo antitetico a quello allora comunemente inteso. «Il “Nuovo Mattino” – continua Roberto Mantovani - all'inizio fu un momento di forte rottura. Non fu la negazione dei pantaloni alla zuava e l'esaltazione della fascia nei capelli: Gian Piero Motti desiderava ‘soltanto’ proporre un alpinismo più umano, slegato dalla sofferenza e dall'ostentato e retorico eroismo. E per far questo era necessario scendere, abbandonare per un certo tempo le grandi montagne e dedicarsi ad avventure su pareti che, salendo dai prati verso i prati, permettevano di cancellare l'idea del dolore e della morte con la conseguente riacquisizione di un profondo umanesimo della montagna». Era l'esaltazione della vita in parete, di un ritrovato rapporto tra l'uomo e la natura con il gesto che, compiuto sulle rocce del fondovalle piuttosto che sulle ciclopiche muraglie alpine, non perdeva comunque alcun significato: potrebbe sembrare paradossale ma, a livello di vissuto interiore, per il “Principe” esisteva perfetta coincidenza tra il trovarsi sulla Nord-Ovest del Civetta o su una solare placca granitica a pochi metri da terra. Scendere per poi risalire, lasciare il mondo di cristallo dell'alta quota per tornarvi con uno sguardo nuovo: ecco l'essenza del “Nuovo Mattino” che, nelle intenzioni di Gian Piero Motti, non avrebbe avuto alcuna ragione di esistere se non in funzione delle “Antiche Sere”, ossia del grande ritorno che ricorda quello di Ulisse ad Itaca. Anche se, come spiega perplesso Alessandro Gogna, «le “Antiche Sere” sono forse la contemplazione dell'irraggiungibile».

L'arrampicata californiana, della quale tanto si parla quando si ricorda il nostro protagonista, non era il suo “fine ultimo”: per Gian Piero Motti rappresentava soltanto una chiave, un possibile mezzo per illustrare la rivoluzione. Spiega Ivan Guerini: «Non era difficile capire che per lui la psicanalisi e il mito non erano un fine esaltante, ma uno strumento interpretativo di significati, tanto quanto l'alpinismo californiano era un pretesto per parlare del “Nuovo Mattino”.». Egli, in verità, aveva in mente una California ideale che avrebbe potuto realizzarsi in qualunque luogo. Quando, era il 1980, la Rivista della Montagna pubblicò Zero the Hero, furono molti coloro che non capirono il senso di quella pagina bianca e delle carte del matto e dell'‘appeso’ dei tarocchi inserite nel testo. Quella volta Gian Piero Motti aveva lanciato una provocazione assoluta, proclamando a gran voce la necessità di azzerare ogni cosa ribaltando un ordine ormai privo di ogni senso e necessità. Fu una sorta di estremo appello che cadde nel vuoto – e forse non poteva essere altrimenti - e Arrampicare a Caprie, edito nel 1983 e denso di riferimenti psicoanalitici, non è altro che l'amara constatazione della fine del “Nuovo Mattino”, il crollo di un'illusione che diventa metafora della vita. «Il free climbing – scrive Gian Piero Motti in quello che fu il suo ultimo lavoro -, inteso non tanto nel senso di “arrampicata libera” ma in quello più ambizioso e filosofico di “libero arrampicare”, pareva essere nato come espressione di libertà e di assoluta disibinizione. Ahimè... ora ci si va accorgendo che invece ha portato gli alpinisti a schiavitù, dogmi, imposizioni, divise da portare, fazioni, provincialismi, miti e mitucci dell'uomo muscolo alla Bronzo di Riace, glorie e gloriuzze, re e reucci di paese... un quadro forse peggiore di quello dell'alpinismo di ieri. Il “Nuovo Mattino” rappresentava la possibilità di estendere la dimensione dello spirito a quelle strutture rocciose che erano invece ripudiate dagli alpinisti tradizionali. Era la possibilità di vivere la dimensione spirituale in una fase critica e delicata, in cui era necessario allontanarsi per un po' dalla grande montagna [...]. Ma dopo era necessario tornare, discendere; e il “Nuovo Mattino” era nato proprio come ponte per raggiungere la pianura dalla quale si sarebbero cominciate a scorgere le altre montagne, quelle vere, quelle che avrebbero portato all'Altopiano della Vita [...]».

L'ideale di vita di Gian Piero Motti, ridotto ai minimi termini, era la ricerca della propria strada, della propria via: un cammino personale che, una volta individuato, si dischiude man mano che lo si percorre. «Quando gli chiesi notizie sulle pareti della Valle dell'Orco – racconta Ivan Guerini –, mi disse che in Val Masino esistevano placconate non ancora salite, alte e difficili. Oggi, ripensando a quel momento, credo che Gian Piero Motti abbia voluto sussurrarmi di non seguire la strada degli altri ma di cercare la mia: “Quella che ora non vedi ma che si dischiuderà mentre la percorri!”. E così continuai per la via già imboccata sulle pareti delle Grigne».

«Era un uomo impegnato in una lotta totale – ricorda Alessandro Gogna -, che aveva capito che ‘la salvezza’ non può arrivare dall'alleanza con gli altri. Per questa ragione era forte, volitivo e testardo nelle cose che gli interessavano. Fu un rivoluzionario, ma nel profondo: ciò contrastava con il suo comportamento, con il suo fare borghese ostentato, con il suo vestire sempre in ordine e con il suo intellettualismo. Era, in breve, una persona che non sapeva fingere». Dalle parole di Roberto Mantovani, alle quali Gian Piero Motti ha probabilmente lasciato non poca parte della sua eredità spirituale, emerge un personaggio di grande spessore culturale, di mentalità apertissima e, particolare di non secondaria importanza, autodidatta senza compromessi: un giovane, Gian Piero Motti, che risaltava nel rigido ambiente alpinistico torinese della scuola Giusto Gervasutti, un arrampicatore di classe che si faceva notare nei rifugi per la sua finezza e sensibilità, in grado di sgretolare la spessa ostentata volgarità di certi montanari incapaci di strutturare il più elementare ragionamento. «Era spesso portatore di grande allegria – ricorda ancora Roberto Mantovani –, amante della compagnia oltre che, naturalmente, incredibile conversatore. Non gli mancarono le fidanzate, tuttavia vedeva in personaggi come Giusto Gervasutti, alle quali dedicò uno dei capitoli più straordinari della sua Storia dell'Alpinismo qualcosa di elevato e nobile.». Un punto di vista, quello del direttore dello storico periodico torinese, che coincide con quello che Guerini presenta in significativo aneddoto: «Era il 1981. Ricevetti una telefonata di Gian Piero Motti che voleva avere la mia biografia per l'Enciclopedia della Montagna. Quando ci incontrammo, in quel di Torino, passammo insieme un'intera giornata e mi resi inaspettatamente conto di un lato nascosto della sua personalità: nei momenti in cui si sentiva a suo agio era un personaggio di squisita ironia. Non ricordo se durante i nostri incontri successivi passammo più tempo a parlare o a ridere degli aspetti più paradossali dell'esistenza... Con lui gli argomenti interessanti venivano a galla spontaneamente, con naturalezza, ma capitava spesso di finire seduti a terra, uno di fronte all'altro, a ridere e soltanto ridere, come se l'intensità di quei ragionamenti vorticosi ci avesse svuotati. L'ironia, comunque, non era un prendersi gioco della realtà, ma un modo per visualizzare ciò che ci sembrava grottesco».

Abbiamo già accennato all'eleganza di Gian Piero Motti che si manifestava in pienezza durante l'arrampicata: lo stesso Ivan Guerini, che la prima volta lo vide impegnato sulla Gogna in Medale, lo ricorda fulmineo, leggero, capace di “scorrere in verticale” con movimenti ampi ed eleganti. «Era una persona dai modi gentili e delicati – aggiunge Ivan Guerini -, tanto nello scalare quanto nel pensare e nello scrivere. Era un ragazzo terribilmente appassionato che si recava spessissimo in montagna per compiere salite belle ed impegnative, sempre entusiasta ed eccitato dalla scoperta di posti nuovi. Ma era anche un giovane che leggeva in continuazione libri su libri, testi faticosi e difficili». Così ancora oggi non è difficile immaginarlo immerso nei suoi studi, impegnato in un'avventura davvero titanica alla quale accennò, non troppo vagamente, in una lettera inviata a Ugo Manera nel 1980. Gian Piero Motti scrisse di «una forza enormemente più grande e più forte di me» che lo aveva chiamato ad «un lavoro oscuro, terribilmente difficile ed ingrato. Un lavoro compiuto e da compiere tutto con il pensiero, dove si incontrano pareti immense, sconfinate, da affrontare in una solitudine che non lascia speranze». Egli giunse a scorgere simboli e significati oltre la scorza delle rocce, a penetrarne il mistero, a profetizzarne il divenire in vana attesa del sospirato ritorno. Il suo viaggio non ebbe mai termine e le visioni di un tempo - come quella dell'agosto 1973, in compagnia di Roberto Bianco, ai piedi dei Piloni del versante meridionale del Monte Bianco - erano destinate a rimanere tali. «Ero in testa in quel tratto – scrive Gian Piero Motti nel numero del 1979 di Scandere, il glorioso annuario del Cai di Torino –. Ancora una volta ebbi l'apparizione. E vidi. Vidi la parete del sogno, la parete perfetta nella luce delle prime ore del pomeriggio, i tre pilastri rossi, verticali, simbolici. In quell'attimo tutto tornò sacro, svanì l'incantesimo malvagio, mi sentii come purificato e leggero» (corsivo mio). Sono parole che richiamano alla memoria quelle di un altro grande, il francese Bernard Amy, che nei suoi racconti parlava di una montagna magica, allegoria del Caos e del Cosmo, del disordine e della razionalità, delle più alte aspirazioni e dei più squallidi desideri. La montagna, in sintesi estrema, come luogo privilegiato per elevarsi oltre l'“insostenibile pesantezza dell'essere” ma anche dove lasciar scatenare l'egoismo e il lucido desiderio di annientare persino il proprio simile.

«Oggi – fruga nei ricordi Ivan Guerini -, ho l'impressione che certe considerazioni di Gian Piero Motti siano state tanto intime e profonde da assomigliare a quei sogni dei quali non si ricorda nulla ma che, a distanza di tanto tempo dischiudono il loro significato. L'ultima volta che lo vidi fu nel novembre 1982. Nel tardo e piovoso pomeriggio di quell'intensa giornata d'autunno, durante la quale mi parve di aver parlato di tutto, mentre si andava alla stazione e il traffico sfrecciava convulso intorno a noi, egli guidava piano pronunciando lentamente le parole. Sembrava quasi evidenziare che, nello stesso momento, la realtà è composta da elementi paralleli e differenti... Lo salutammo, io e Monica Mazzucchi, di corsa verso il treno in partenza, e quando giungemmo davanti al vagone provammo il rammarico di chi intuisce di aver visto per l'ultima volta una persona cara: mi voltai per un ultimo saluto ma egli era già scomparso, come uno spettro nel mondo frettoloso dei vivi. Ci lasciò l'anno seguente. Un giorno Monica Mazzucchi mia moglie mi disse che nella vita c'è un punto, non importa a che altezza, giunti al quale si decide inconsciamente di cominciare a morire...».

 

 

1968 - 20/21gennaio. Guido Machetto e Gian Piero Motti, realizzano la 1° invernale del pilastro Nord-Est della Tour Ronde (via Bernezat). Scalata molto bella. Supera il fianco Est del ripido sperone che sporge a sinistra della parete Nord e del diedro; la parte superiore è su terreno misto. Roccia ottima. Dislivello del pilastro 250 m, 350 m. fino in cima. Difficoltà TD-, fino a V+ e Al. - Gruppo della Tour Ronde - Massiccio del Monte Bianco.

 

1969 - 15 luglio. Gian Piero Motti, realizza la 1° solitaria salendo il Pilastro Est (Pilastro Gervasutti) del Mont Blanc du Tacul. - Il pilastro Est, di magnifica roccia rossastra, si erge superbo a sinistra del pilastro centrale. La via lo segue quasi interamente, quindi si porta sotto la Torre Rossa e termina come la Boccalatte. Sul pilastro l'arrampicata è molto bella e su roccia ottima, a parte la traversata obliqua finale su rocce rotte e neve, passaggio-chiave della salita. Buoni i punti di sosta; in posto circa 15 chiodi di via. L'attacco è esposto alla caduta di sassi. Dislivello 800 m, con sviluppo di circa 1000 m. Difficoltà TD+ sostenute sui 450 m. del pilastro, di IV, V e passo di V+ e A2. - Gruppo Mont Blanc du Tacul - Massiccio del Monte Bianco.

 

197118/19 dicembre. Gian Carlo Grassi, Ugo Manera, Gian Piero Motti, Miller Rava, effettuano la 3° ascensione della (via Perego, classica) sul versante Est del Mont Blanc du Tacul del Pilastro a Tre Punte. Arrampicata elegante, sostenuta, in libera e con tratti di artificiale, su roccia magnifica ma con qualche blocco mobile. Via poco attrezzata, utili chiodi vari; l'attacco è esposto alla caduta di sassi, crepaccia difficile. Dislivello 400 m. Difficoltà TD: 60 m. poco impegnativi, 270 m di V e V+, l0 m. VI°, 55 m. A1 e A2. - Gruppo Mont Blanc du Tacul - Massiccio del Monte Bianco.