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Claudio Corti (1928-    ) - CAAI

 

 

Claudio Corti, classe 1928, operaio di Olgiate, piccolo comune nei pressi di Lecco è uno dei Ragni di Lecco, un’associazione costituita nel secondo dopoguerra da reduci, partigiani, operai e semplici appassionati che stentavano a riconoscersi nel CAI, ingessato allora in un marcato elitarismo.

La loro era l’esternazione di una voglia di riscatto di giovani costretti alla monotona disciplina di fabbrica sin da ragazzi. Era la volontà di affrancamento dalle rigide divisioni di censo e di reddito, già pesanti in quell’inizio di secolo e poi aggravate dal fascismo. Era un’ansia di libertà, di ridere e di parlare ad alta voce, senza temere giudizi. Era il desiderio di risollevarsi dalla tragedia della guerra di cui tutti portavano i segni e le paure. Era anche l’eterna illusione dell’alpinista, quella di andare verso l’alto e lasciarsi alle spalle il mondo delle ristrette convenzioni borghesi. Misurarsi con la montagna significava per questi giovani emulare e magari superare i «vecchi» come Cassin, friulano, un lecchese di adozione da quando nel 1925 era giunto sul lago in cerca di lavoro in officina. O come Dell’Oro, il popolare «Boga» o altri grandi della generazione precedente.

Sulle guglie e sulle torri della Grignetta e della Grigna i Ragni di Lecco fanno a gara nell’aprire nuove vie e arditi itinerari.

Si racconta, per esempio, che la via che segna il passaggio nella categoria dei «bravi» sia la Cassin al Torrione Costanza. I giovani la ripetono e aprono nuove vie sul Nibbio, sul Fungo, sui Torrioni Magnaghi, sul Sigaro, sull’Ago Teresita, sulla Torre Cecilia, sulla Corna di Medale.

In seguito i Ragni si spingono fuori dai confini locali; diventano campioni dell’arrampicata sul granito e sulle fessure della Val Bregaglia, sul Badile e sul Cengalo. Vanno sul calcare delle Dolomiti, sul Catinaccio, sui Cadini di Misurina, in Marmolada, in Civetta e si confrontano con l’alpinismo trentino e bellunese. Vanno nelle Occidentali per ripetere le classiche vie del gruppo del Monte Bianco. Organizzano campeggi estivi in aree diverse delle Alpi, fondano il Soccorso Alpino, tengono regolari corsi di arrampicata per addestrare nuovi e più giovani scalatori.

Con il passare degli anni, i Ragni di Lecco diventano protagonisti di straordinarie imprese alpinistiche e conquistano fama e prestigio a livello mondiale.

Claudio CortiDalla scuola dei Ragni di Lecco escono alcuni dei più forti alpinisti degli anni Cinquanta e Sessanta come Luigi Castagna, Carlo Mauri, Dino Piazza, Gigi Alippi, Cesare Giudici e molti altri.

Claudio Corti, scalatore istintivo, fisicamente formidabile, dal coraggio straordinario, entra a far parte dei Ragni nel 1955. Se il rischio è un compagno di strada per gli arrampicatori di questi anni, Claudio Corti, in montagna, con il rischio ci convive, lo tratta da amico fedele.

 

 

 


1953 - Claudio Corti colleziona un’impressionante serie di salite, sempre da capocordata. In Bregaglia, con Carlo MauriBigio” e Giulio Fiorelli apre una nuova via sui Pizzi Gemelli.

 

1953 - Claudio Corti con Carlo Mauri a fagli da secondo apre una nuova via sulla parete Est-Sud-Est del Cengalo.

 

1953 - Claudio Corti in Val Masino traccia una nuova via sul Picco Luigi Amedeo con Claudio Gilardi, nativo di Rancio, frazione di Lecco.

 

1953 – 17/18 agosto. Claudio Corti quell’estate ha messo gli occhi sulla parete Est del Pizzo Badile, a sinistra della classica via Cassin. La verticalità è proibitiva, quella faccia del Badile è ancora intatta, inesplorata. Ha un accordo preciso con Carlo Mauri per salire quella liscia lavagna nei giorni di Ferragosto. Ma inopinatamente, in questi stessi giorni Carlo Mauri va con Walter Bonatti a tentare il pilastro Sud-Ovest del Dru, nel gruppo del Bianco. Claudio Corti si è allenato a dovere, quella doveva essere la sua salita. Un fine settimana precedente, in un’uscita di ricognizione alla parete, ha conosciuto, al Rifugio Sasc Fourà, Felice Battaglia, un forte rocciatore di Sesto San Giovanni.

Si accorta con lui e il. Claudio Corti e Felice Battaglia apriranno una nuova difficilissima via ai confini del possibile, un capolavoro d’intuito, sulla parete Est Nordest, del Pizzo Badile, purtroppo segnato dalla sorte: all’uscita di quella liscia lavagna di granito, ormai vittoriosi, dopo l’estenuante arrampicata, sono investiti da un temporale. Un fulmine colpisce Felice Battaglia, che precipita. Corti si cala nella notte e nella bufera per soccorrere l’amico. Ma non può che costatare la morte. Assicura il corpo alla parete, risale in vetta e scende sul versante italiano per allertare i soccorsi.

Questa vicenda che cadde in un alone di mistero venne svelata solo nell’agosto 1975 con la prima ripetizione – incredibile a dirsi - ad opera dello stesso Claudio Corti con Sergio Lanfranconi.

A Felice Battaglia, Claudio Corti ha dedicato la via. Le estreme difficoltà segnate furono confermate dai componenti della terza ascensione Massimo Colombo e Giancarlo Riva il 29 luglio1984).

 

1954 - La passione è irrefrenabile, la possibilità di morire fa parte del gioco e la montagna lo chiama: Claudio Corti riprende ad arrampicare.

 

1954 - 27 giugno. Claudio Corti e Arnaldo Tizzoni compiono la 2° ripetizione della via Cristina per lo Spigolo Nord-ovest dello Spallone al Campanile Basso. - Catena degli SfulminiGruppo di BrentaDolomiti di Brenta.

 

1955 - Claudio Corti entra a far parte dei Ragni di Lecco.

 

1955 - Claudio Corti apre con M. Colombo una nuova via sul Pizzo Torrone Occidentale in Bregaglia lungo un’evidente linea di fessure parallele. (Raramente ripetuta).

 

1955 - Claudio Corti arrampica con Carlo Mauri e Carlo Rusconi sulla via Ruchin ai Torrioni Magnaghi, e Carlo Rusconi è capocordata, seguito da Carlo Mauri. Claudio Corti è in basso, fermo, in attesa che i compagni vadano in sosta. Carlo Rusconi manca un appiglio e precipita.

 

1956 – Con Annibale Zucchi, Claudio Corti tenta per ben due volte la ripetizione della Bonatti al Dru; la prima volta devono ritirarsi per il brutto tempo, la seconda sono investiti da una slavina alla sommità del canale d’attacco, quel canale ripidissimo, tetro e repulsivo che già è un durissimo preludio alle difficoltà della parete. Corti vola e Zucchi vola con lui, i loro corpi urtano lame di ghiaccio e di roccia nella caduta. Quando si fermano, Corti, benché gravemente ferito e sanguinante si carica Zucchi sulle spalle e lo porta in salvo sulla morena del ghiacciaio della Charpoua. Lì saranno soccorsi e salvati.

 

Il suo è un alpinismo estremo, di confine, come la sua generazione senza calcoli; la sua ansia di nuove scalate, la sua energia fisica, la sua agilità suscitano stupore, ammirazione e anche qualche invidia nella comunità alpinistica lecchese. Quanto al pericolo dell’arrampicare, erano anni in cui la morte in montagna era qualcosa di presente, di scontato, quasi una dolorosa ma inevitabile necessità, e a Lecco e dintorni accadeva sovente di vedere genitori piangere la scomparsa di figli troppo audaci.

Un giorno Gigi Vitali, presidente dei Ragni, dà a Corti una foto della Nordwand, una cartolina, e Claudio decide di legarsi all’impresa di salire la parete proibita agli italiani.

La ricerca di un compagno non è facile. Nei Ragni Corti è il «Marna», un sopranome che si porta dietro da quando era bambino. Benvoluto per il suo carattere semplice e schietto, un po’ temuto per la sua audacia, sicuramente ammirato per la sua fenomenale resistenza. Spesso, anche sulle placche più compatte e verticali, Corti è noto per non mettere un chiodo su tutto un tiro di corda.

Armando Aste dice di lui: «Se avesse avuto un secondo di cordata che lo avesse affiancato e orientato avrebbe potuto fare cose eccezionali. L’ho visto ripetere la via Rovereto sulla Ovest dello Spallone del Campanile Basso. A un certo punto è passato su diritto su quegli strapiombi rossi: ha fatto una via nuova e nemmeno lo sapeva».

 

1957 - Claudio Corti finalmente trova il compagno: si chiama Stefano Longhi, ha già quarantaquattro anni ma possiede una resistenza fuori dal comune. Stefano arrampica da sempre, ha il brevetto di Guida Alpina e ogni domenica porta i suoi clienti ad arrampicare.Già nel lontano 1937 ha compiuto la prima ripetizione della via Ratti-Panzeri alla parete Sud-Sud-Ovest della Torre Venezia in Civetta.

Si accordano in Aprile, si allenano di nascosto, per non dare nell’occhio, come ogni scalatore che ha in animo un’ascensione difficile. In Luglio scalano insieme per cinque giorni, preparano l’attrezzatura e i viveri con meticolosa precisione, mettono a punto il loro piano. Alle rispettive famiglie hanno detto che vanno ad arrampicare nelle Dolomiti; si incontrano alla stazione di Milano e restano ospiti a pranzo dall’ingegner Bruno Ferrario, titolare di famose pelliccerie. Ferrario, che è abituale cliente di Stefano Longhi per arrampicare in Grigna e in Bregaglia, ha acquistato per loro due corde nuove di nailon. Ripartono in treno, raggiungono Interlaken e sempre in treno salgono a Wengen. Non si fermano alla Kleine Scheidegg e proseguano fino alla stazione di Eigergletscher dove prendono una stanza all’albergo. Il giorno seguente, 2 Agosto, vanno a esplorare la base della parete. Lasciano un sacco con la ferraglia in un anfratto, decidono un possibile punto d’attacco, poi rientrano in albergo per la cena. Della parete hanno quella cartolina sulla quale hanno tracciato una possibile via di salita. Ma si sono procurati anche una relazione, scritta in tedesco; Stefano Longhi, che ha lavorato a lungo in Germania, conosce la lingua e ne decifra i punti esenziali.

Sabato 3 agosto, alle tre del mattino iniziano 1'arrampicata. Ma sbagliano via. Anziché infilarsi sulla Heckmair, ingannati da alcuni vecchi chiodi attaccano più a sinistra, salgono diritti, la stessa direzione di Karl Mehringer e Max Sedlmayr, i due tedeschi del primo tentativo. Presto, invece del terzo-quarto grado della Heckmair trovano passaggi durissimi, di sesto. Capiscono di aver sbagliato via, ma è tardi e sono costretti a bivaccare.

L'indomani non resta loro che scendere in corda doppia e fare una laboriosa traversata verso Ovest per evitare di scendere fino alla base; riescono così a riguadagnare la via Heckmair con una serie di pendoli e di risalite; la correzione di rotta s'è presa buona parte della giornata. Mentre riprendono a salire, notano sotto di loro altri due scalatori. Verso sera Corti e Longhi decidono di fermarsi e vengono raggiunti da due giovani tedeschi, Gunther Nothdurft e Franz Mayer, di Rottweil. Sono due abili rocciatori con alle spalle notevoli arrampicate. Gunther Nothdurft in particolare ha compiuto un exploit: ha salito in solitaria la Cassin sulla Nord-Est del Pizzo Badile, preceduto in quell'impresa solo dal grande Hermann Buhl.

Le due cordate tirano il fiato, si salutano, Stefano Longhi riesce a scambiare con loro qualche battuta. Poi ripartono e arrivano sotto la Fessura Difficile; lì, su un ripido pendio innevato, decidono per un secondo bivacco.

Lunedì 5 agosto, alle prime luci dell'alba i due lecchesi scaldano il caffè per la colazione e notano con stupore che i due tedeschi vicino a loro li guardano e non accennano a mangiare.

Longhi conosce il tedesco e Franz Mayer, che sa qualche parola d'italiano, spiega che il loro sacchetto-viveri è precipitato durante la notte. Gli italiani allora offrono loro cibo e bevande, mentre si chiedono se i due rinunceranno alla salita. Ben presto però si avvedono che i due tedeschi si apprestano a seguirli e toccherà quindi a loro sfamarli per il resto della scalata. Claudio e Stefano non si preoccupano: la loro scorta di viveri dovrebbe essere sufficiente.

Ripartono, scalano la Fessura Difficile e traversano l’Hinterstoisser; i due tedeschi li seguono ma appaiono molto lenti. Sul bordo superiore del Primo Nevaio le due cordate, ormai insieme, bivaccano. Martedì 6 agosto, i due lecchesi capiscono che Nothdurft non sta bene e accusa fortissimi dolori di stomaco. Alla palese richiesta di Gunther e Franz, Claudio e Stefano accettano di legarli alla loro corda e quindi di procedere insieme. Ora tutto diventa più lento e complicato, anche per il fortissimo Corti. Il superamento del Secondo Nevaio prende loro alcune ore. In serata sono al Ferro da Stiro, dove sono costretti a un quarto bivacco.

L'indomani, mercoledì 7 agosto, Corti, con un'abile manovra di corda, facilita ai compagni la traversata in discesa verso l’attacco della Rampa e poi la attacca; per evitare la famigerata cascata d'acqua devia sulla destra in aperta parete. Mentre gli altri si predispongono a un nuovo bivacco, Corti sale e attrezza con sette chiodi la formidabile placca di 60 metri sopra di loro.

Un grumo di nuvole si addensa nel cielo a settentrione e si avvicina minaccioso; è un fronte di bassa pressione che va ad acquattarsi, come sempre, sulla cresta e poi inonda la parete. I quattro spariscono presto alla vista e sono investiti dall'uragano. Il quinto bivacco è penoso per tutti perché il Camino della Cascata li investe lateralmente con scrosci e spruzzi, pioggia mista a neve spazza la Rampa li assale e li scuote; gli alpinisti fradici e infreddoliti si stringono insieme, quasi abbracciati, avvolti nel tendino rosso dei tedeschi e assicurati alla roccia. Nothdurft è febbricitante e Corti, con manovre di delicato equilibrio, gli scalda e gli somministra diverse tazze di caffè zuccherato.

Giovedì 8 agosto riprende la scalata. Claudio guida, Nothdurft e Mayer seguono e Stefano chiude e recupera il materiale. Non traversano all'altezza della Traversata degli Dei, perché Claudio vuole evitare il Ragno: ha capito che il Ragno è il fondo di una sorta di imbuto che convoglia tutto quanto precipita dai pendii sommitali; data l’estenuante lentezza della loro progressione, infilarsi in quel tunnel sarebbe un azzardo irresponsabile.

I tedeschi, interpellati, sono d'accordo nella manovra. Longhi sente il freddo che nei lunghi periodi di sosta lo assale e gli morde le mani: quello che decide Claudio Corti per lui sta bene.

Claudio Corti si innalza ancora su tremendi strapiombi per raggiungere una cengia segnata nell'immagine della parete da un'evidente striscia di neve che traversa e si innesta sul Ragno, alla sua estremità superiore. Un tratto che gli costa tre ore di tempo e gli corrode le instancabili braccia. Riesce a guadagnare una lunghezza di corda, poco più di trenta metri. Si appresta allora a recuperare gli altri. La sua mantella viene calata ogni volta per proteggere chi sale dagli scrosci di acqua gelida che si riversano dall'alto. Di fatto la cordata si trova sulla variante Waschak-Forstenlechner, la cordata austriaca che aveva salito la parete in un sol giorno, nel 1950.

Si issano fin su quella che pareva una cengia, ma che in realtà si rivela un'ingannevole rigola di neve sovrastata da scuri strapiombi. Sono colti dall' oscurità, si devono ancorare su quello strettissimo gradino che spiove verso il basso. Ha preso a nevicare, sono a quota 3700, la parete è scossa da folate di tormenta, il bivacco - ormai il sesto - sarà tremendo perché il freddo li azzanna e non molla la presa.

Bivaccano tutti e quattro insieme, abbracciati, in piedi, nella tendina dei tedeschi, assicurati alla parete.

Il mattino di venerdì 9 agosto, Stefano accusa principi di assideramento alle mani. Mai nessuno è stato così a lungo sulla Nordwand. Claudio mantiene il controllo, sa bene che un suo cedimento fisico o mentale sarebbe la fine per tutti. Pratica due iniezioni di coramina a Nothdurft, che è allo stremo. Con l'alcol del fornelletto friziona a lungo le mani dell' amico Stefano. Ora li aspetta una lotta feroce per sfuggire alla parete. Spostati a sinistra rispetto alla via Heckmair devono a ogni costo uscire in punta per non morire. Dal basso, giornalisti e curiosi sono in gran fermento, e da più parti si muovono iniziative per andare in soccorso dei poveri alpinisti incrodati sulla Nordwand. La prolungata permanenza in parete sta bruciando le ultime energie della cordata. Stefano, che chiude la cordata, non sente più le mani, e si innalza barcollando, con movimenti meccanici. Non riesce a sganciare la corda dai moschettoni e a recuperare i chiodi, le sue mani sono ormai insensibili. Improvvisamente manca un appiglio, scivola, si stacca dalla parete, vola su uno strapiombo. Claudio Corti cerca di trattenerlo e di bloccare invano la corda: questa gli scorre sui palmi delle mani, gli raschia e gli ustiona la pelle.

Stefano Longhi si è fermato, appeso alla corda, e penzola nel vuoto sopra l'abisso di nubi e di nebbie. Grida e chiede di essere calato per qualche metro per poter posare i piedi su una cengia. Nonostante i palmi ustionati, Corti lo cala senza poterlo vedere, impedito dallo strapiombo che li separa. Assicura la corda con due chiodi e poi si cala a sua volta fin sull' orlo dello strapiombo per avvicinare il compagno e cercare di recuperarlo. Si sforza, tira, stringe i denti e ancora si contrae per lo sforzo, ma non riesce a tirarlo su di un centimetro. L'attrito della corda contro la roccia ne impedisce il minimo scorrimento. Non c'è nulla da fare: ora si lotta per non morire, tutti quanti.

Claudio è in preda a una tempesta di pensieri, poi capisce che non ha altra scelta: decide di calare a Stefano viveri, indumenti e anche il suo sacco da bivacco. Lui tenterà di uscire in vetta al più presto per poi scendere agli alberghi e far salire i soccorsi. Lo rassicura, lo incoraggia a non disperare, alla vetta non mancano che duecento metri, cerca di infondergli un alito di speranza.

Stefano a casa ha una moglie e due figlie che lo aspettano; sembra rassegnato perché ha capito che non ci sono altre scelte.

Claudio sembra fiducioso: ha passato altre situazioni drammatiche, sulle pareti più difficili. Gli tornano alla mente la Nord-Est del Badile, quando ha recuperato un alpinista caduto in un crepaccio e l'ha portato a valle sulle spalle, o quando ha perso un amico carissimo sotto un terrificante temporale, o quella volta al Dru quando una scarica di ghiaccio aveva travolto lui e il compagno Annibale Zucchi, scagliandoli nell'imbuto del ghiacciaio..

Da dove si trova, Corti viene recuperato dai tedeschi e quindi passa di nuovo a condurre in testa alla cordata. Riprende a salire, altri trenta metri, mette un chiodo, recupera i due tedeschi. Ormai sono prossimi a uscire, ancora gli Ausstiegrisse ed è finita. Riparte, si trova venti metri sopra i tedeschi, quando poco più sopra parte una scarica e una pietra lo colpisce in pieno volto.

Per la botta, Claudio precipita, per lui è finita! Ma la corda alla fine del volo lo trattiene; uno strappo come una scudisciata, ma il chiodo ha retto. Corti penzola a testa in giù, dieci metri sotto i tedeschi!.

Mayer tira la corda e Corti torna in posizione verticale, la testa rossa di sangue che sprizza dal taglio, vicino alla tempia.

Franz Mayer scende fino a lui, gli mette del ghiaccio sulla ferita per fermare l'emorragia, poi una benda tenuta ferma dal passamontagna. Corti è intontito, prostrato, seriamente ferito.

Lui che ha generosamente guidato la cordata fino a quel momento, ora non è più in grado di proseguire. I due tedeschi prendono in mano la situazione: tocca a loro tentare di raggiungere la vetta e lanciare i soccorsi.

Riconoscenti per l'aiuto che fino a quel punto hanno ricevuto, lasciano al ferito il loro tendino rosso da bivacco. Servirà a proteggerlo e a renderlo visibile al momento del soccorso. Claudio dolorante saluta i due tedeschi e li vede scomparire nella nebbia sopra di lui.

Franz Mayer e Gunther Nothdurft scomparvero nella nebbia quel pomeriggio di venerdì 9 agosto e nessuno li vide più.

Già a partire da martedì 6, sul fondovalle, a Grindelwald, la scalata delle due cordate era stata osservata da decine di curiosi e da esperti alpinisti. Aveva destato dubbi e stupore il loro progredire, giudicato eccessivamente lento.

Fra gli osservatori assiepati sul prato del campeggio, giù a Grindelwald, c'era Lionel Terray, l'alpinista francese che, dieci anni prima, con Louis Lachenal, aveva compiuto la prima ripetizione della via Heckmair. Conosceva bene i pericoli della Nordwand e aveva scosso il capo quando i quattro puntini sul Secondo Nevaio erano stati inghiottiti dalle nuvole di maltempo.

Mercoledì 7, su alla Kleine Scheidegg, Fritz von Almen puntò di nuovo il suo potente Zeiss contro la parete: da due giorni aveva tenuto d'occhio quattro alpinisti che aveva scorto nei pressi della Hinterstoisser.

Sulla terrazza del suo albergo stazionavano centinaia di turisti che si contendevano a suon di franchi il privilegio di osservare la cordata dei quattro, ricomparsi sul Terzo Nevaio e in procinto di superare il Ferro da Stiro. Fra questi, anche dei polacchi, provetti scalatori, che si apprestavano a partire per salire la parete Ovest: avrebbero accolto sulla vetta i quattro della Nord con viveri e indumenti asciutti. La gente consumava bibite e aperitivi, seduta ai tavolini ascoltando i commenti degli esperti che, alla Kleine Scheidegg, erano sempre numerosi.

Dopo una notte di maltempo, giovedì 8 alla Kleine Scheidegg piovigginava; nel tardo pomeriggio Hermann Geiger, il famoso pilota dei ghiacciai, passò in volo radente vicino alla parete con il suo Piper e vide che gli scalatori l'avevano salutato, gesticolando.

Von Almen aveva ormai intuito la gravità della situazione. Telefonò a Robert Seiler, capo di una squadra di Soccorso Alpino. Seiler, svizzero di Bonigen, aveva salito la Nordwand nel 1950 con altri tre connazionali: si attaccò al telefono, inviò telegrammi e convocò la sua squadra. Si accordò anche con Erich Friedli, capo del servizio di soccorso di Thun. Friedli disponeva di attrezzature moderne come cavi, verricelli, radio portatili e poteva contare su una squadra di ben ventun uomini. Avrebbero unito le loro forze per attivare il soccorso. Il servizio di soccorso di Grindelwald, sollecitato a partecipare, rifiutò categoricamente: per le guide locali, un soccorso sulla parte alta della parete con la minaccia del maltempo era troppo rischioso.

La notizia di un altro imminente dramma sulla Nordwand era rimbalzata nelle agenzie di tutta Europa. Perfino sul New York Times di venerdì 9 comparve un pezzo sui quattro scalatori incrodati, due dei quali tedeschi. Altri giornalisti di diverse testate internazionali salirono alla Kleine Scheidegg. L'albergo era pieno e pareva il centro del mondo.

Le due cabine telefoniche erano perennemente occupate.

Le famiglie di Corti e di Longhi, avvezze alle cronache alpinistiche, avevano saputo di ciò che stava accadendo nell'Oberland. Ignoravano tuttavia che i loro uomini fossero i due con il maglione rosso che erano stati visti aprire e chiudere la cordata.

Si mosse anche Ludwig Gramminger, capo del Soccorso Alpino bavarese. Gramminger, cinquantun anni, oltre che un esperto alpinista, era un maestro dei soccorsi in montagna; era già stato sull'Eiger nel 1935 per tentare di portare aiuto a Mehringer e Sedlmayr; vi era tornato nel 1937 per soccorrere Kurz e ancora nel 1955 per un altro soccorso. Aveva inventato una barella-seggiolino per il trasporto dei feriti in parete che ancora oggi porta il suo nome. La sua squadra era la Bergwacht (Guardia di montagna) alle dirette dipendenze della Croce Rossa tedesca; a fame parte erano solo volontari.

Quel venerdì Ludwig apprese dalla radio la notizia dei quattro scalatori sulla Nordwand. Erano le sette del mattino quando Ludwig telefonò a Willy Balmer, capo del soccorso di Grindelwald. Gramminger conosceva bene le procedure, non voleva essere un intruso in casa altrui.

Ottenuto il tiepido consenso di Balmer al suo intervento, riunì la squadra e, per guadagnare tempo, si diede a organizzare un trasporto aereo degli uomini e delle attrezzature. Ma all'ultimo momento, la bassa pressione e i nuvoloni che gravavano sulle Alpi svizzere vietarono l'uso di un aeroplano. Gramminger balzò al volante del suo Kombi Volkswagen, caricò uomini e materiali e, nel tardo pomeriggio, si mise in strada sotto la pioggia battente, verso i passi della Svizzera.

Anche Terray si mosse dal campeggio di Grindelwald, con i suoi due clienti olandesi, valenti alpinisti. Ma era ormai sera e i trenini per la Kleine Scheidegg e la Jungfrau sarebbero rimasti fermi fino all'indomani. A nulla valsero i loro tentativi per ottenere una corsa speciale. Le squadre di Seiler e di Friedli erano invece salite allo Jungfraujoch. Il loro piano era di salire sulla vetta della montagna dell'Eigerjoch e la cresta Sud della montagna e di là organizzare il soccorso con un verricello agli alpinisti bloccati. Con la neve e il maltempo risalire la parete Ovest era assolutamente fuori discussione: troppo pericoloso, soprattutto per le incombenti valanghe.

Gramminger e la sua Bergwacht arrivarono a Grindelwald verso la mezzanotte di venerdì 9, cercarono anch’essi un treno « speciale» che li portasse sotto la parete. Tutto era chiuso, il paese era deserto. L'attenzione e il gossip che di giorno si riversavano sugli scalatori prigionieri della Nordwand si erano dissolti. Anche Willy Balmer era a dormire. Lo tirarono giù dal letto in piena notte, erano venuti da Monaco con il suo consenso e lui non aveva nemmeno prenotato un letto perché potessero riposare per qualche ora.

Sabato 10 agosto, prima dell' alba - per Corti e per Longhi era il settimo bivacco in parete, per Mayer e Nothdurft è il sesto - le squadre di Seiler e di Friedli partirono dallo Jungfraujoch per salire la montagna. li tempo era tornato sereno, ma c'era ghiaccio dappertutto, raffiche di forte vento, un freddo polare. Carichi di materiali, gli uomini salirono con difficoltà, piazzarono corde fisse, aggirarono i crepacci. Uno di loro cadde in una fenditura e ci volle una buona ora per riuscire a tirarlo fuori, ammaccato e contuso. Nella tarda mattinata erano in vetta e vi trovarono Terray e il suo cliente olandese De Booy che erano saliti dalla Ovest. Quel mattino stesso alla stazione di Grindelwald, Gramminger e la sua squadra aspettavano di salire sul primo treno per la Kleine Scheidegg. A loro si era unito Max Eiselin, alpinista di Lucerna, amico di Gunther Nothdurft. Da una Fiat 1100 con targa italiana sbucarono altri due alpinisti: erano nientemeno che il famoso Riccardo Cassin, quarantotto anni, e Carlo Mauri, ventisette. Erano giunti a Grindelwald per fare una ricognizione alla parete. Cassin pensava alla Nordwand da sempre e Mauri era un alpinista giovane ma già dal curriculum eccezionale.

I due italiani apparentemente non sapevano di Corti e di Longhi. Riconobbero Gramminger, che a sua volta riconobbe Cassin. Vennero quindi a sapere delle cordate bloccate in parete e chiesero immediatamente di unirsi ai soccorritori, tanto più che correva voce che due degli alpinisti fossero italiani. In quel momento arrivarono anche i polacchi e anche loro si offrirono come volontari. Tutti sul treno, i tedeschi, gli italiani e più tardi i polacchi salirono alla Kleine Scheidegg, dove von Almen aveva organizzato un ponte radio con Friedli, sulla vetta della montagna.

Una notizia, troppo vaga per essere seriamente considerata, circolava alla Scheidegg: pareva che qualcuno, nella notte gelida e serena, avesse avvistato due uomini uscire in vetta, intorno alla mezzanotte. Ma nessuno li aveva incontrati, non Terray e De Booy saliti dalla Ovest, né Friedli e Seiler saliti con le loro squadre da Jungfraujoch.

Alla stazione di Eigergletscher i soccorritori scesero dal treno e s'inerpicarono su per la Ovest. Cassin, Mauri ed Eiselin precedevano Gramminger e la Bergwacht, con tutta l'attrezzatura. Nel primo pomeriggio, oltre la metà parete, i tre decisero di portarsi sul filo di cresta che si affaccia sul baratro della Nord. Provarono a chiamare a gran voce più volte e sentirono rispondere una voce debole, portata dal vento. Dalla loro posizione la Nord sembrava un gigantesco imbuto, un'immensa voragine, fredda, senza fine. Impressionante.

Mauri gridò: «Ragni-i-i-i» e la voce rispose. «Chi sei? » urlò Mauri. «Sono Longhi, Stefano Longhi!!!.» Cassin e Mauri si guardarono increduli, quasi inebetiti: «Longhi sulla Nord?» pensarono entrambi increduli, loro che Stefano Longhi lo conoscevano bene. La voce ritornò e li condusse a un punto della parete: ecco, un uomo che agitava una giacca rossa, che chiamava ancora e urlava: «Bigio!!!» perché aveva riconosciuto Mauri e lo chiamava con il suo soprannome. Anche Cassin urlò la sua presenza. La voce si fece implorante e più decisa: «Venite ad aiutarmi... Fame! Freddo!»

Cassin e Mauri non ebbero bisogno di parlarsi; da dove si trovavano, la parete precipitava a strapiombo e mai avrebbero potuto raggiungere il povero Longhi. Si affrettarono a salire sulla cima dove le squadre di Seiler e Friedli stavano già cercando di calare un uomo appeso a un cavo d'acciaio.

L'operazione si dimostrava terribilmente complessa. Bisognava ancorare il verricello a più punti della calotta sommitale, una lama di ghiaccio ricurva nella quale Terray aveva già scavato una piattaforma. Seiler fu il primo a scendere, fino a centoventi metri sotto la cima. Dalla Kleine Scheidegg vedevano sia l'uomo appeso al cavo che i due alpinisti bloccati e, via radio, potevano suggerire quanto spostare il verricello. Poi toccò a Friedli scendere nel vuoto. Intanto erano giunti Gramminger e la Bergwacht, poi arrivarono altri uomini delle squadre e i polacchi.

La vetta dell'Eiger era affollata di alpinisti che scavavano piazzole di stazionamento, preparavano ancoraggi per i cavi, sistemavano punti di bivacco. Si incrociavano linguaggi diversi, lo schweizer-deutsch, il tedesco, il francese, l'italiano. L'olandese De Booy, il cliente di Terray, che conosceva diverse lingue, faceva da interprete. Erano cinquanta gli uomini che si preparavano al bivacco sulla vetta. Da ogni lato i pendii affondavano nell' abisso di nebbia. Una piccola disattenzione e qualcuno di loro sarebbe precipitato.

Anche Friedli era risalito, avendo capito che il verricello non era ancora sulla verticale della tenda rossa. Ripresero i contatti con la Kleine Scheidegg; era ormai quasi notte, sull'Eiger la temperatura precipitò sotto lo zero.

Sulla parete due uomini stavano giocando la loro ultima partita con la morte. Stefano Longhi era allo stremo. Aveva sentito le voci dei suoi amici Ragni, un richiamo che gli aveva infuso un soffio di speranza. Poi più nulla. La sua mente fluttuava tra la veglia - la sua famiglia, la moglie, le figlie, il suo paese - e il delirio; sognava acqua da bere, una tavola imbandita, un prato su cui stendersi, volti cari e sorrisi amati.

Corti più in alto si era lentamente risvegliato. La testa gli scoppiava, la ferita batteva, la benda che gli copriva la tempia era intrisa di sangue, i palmi delle mani scorticati. Claudio ascoltava gli ultimi residui di vita, sentiva che il suo fisico, che pure aveva resistito alle prove più tremende, stava pian piano spegnendosi. Sentiva un freddo atroce, anche se il temporale era finito. Sentiva la neve cadere, si accorse che il vento aveva ripreso furore. Poi come sospesa a un filo invisibile la mente lo abbandonò per un istante e gli riportò in sogno il volto della sua amata Fulvia: prima di partire per la Svizzera lei gli aveva comprato le calze nuove. Il suo corpo si agitava scosso da tremori improvvisi, che lui non riusciva a controllare. Si spaventò perché il suo corpo non gli apparteneva più, come se lo avesse abbandonato. Poi si riscosse e sentì le dita delle mani intorpidite, inerti. Doveva muoverle, strofinarle a lungo e obbligarsi a non smettere; la circolazione riprese e lui provò un acuto, intenso dolore. Ora doveva prestare attenzione ai piedi, non li sentiva e allora con sforzi indicibili riuscì a togliersi gli scarponi; si chinò e massaggiò, con insolita pazienza finché anche le dita dei piedi tornarono a fargli male e il sangue riprese a scorrere. Ora era la sete che lo tormentava e lo induceva, come un automa, a staccare pezzi di ghiaccio dalla parete e a ingoiarli. Avvolto nella tenda rossa, assicurato alla parete, brividi di freddo di nuovo lo assalivano. Era sicuro di morire, poi cadde in un sogno di pietra, tra il sogno e il delirio. Per lui e per il povero Stefano era l'ottavo bivacco.

Domenica 11 furono svegliati entrambi dal rombo di un aereo che passava radente alla parete. Forse era lo stesso del giorno prima o di prima ancora. Claudio e Stefano avvertirono altri rombi, altri aeroplani, ma loro non avevano più voglia di muoversi, le loro residue energie erano ormai un lumicino che un soffio di vento avrebbe spento per sempre. A che serviva agitare la camicia rossa? A che serviva gridare? Ormai speravano che tutto finisse al più presto e che un sonno profondo mettesse pace alle loro sofferenze.

Sulla cima gli alpinisti avevano passato la notte quasi senza dormire. All' alba di domenica 11 agosto, era Gramminger a dirigere le operazioni. La cima venne imbracata di cavi ancorati a chiodi, a blocchi di ghiaccio e ad altri cavi per dare al verricello tutta la sicurezza possibile. Fu Alfred Hellepart della Bergwacht a calarsi; aveva già provato questa manovra su altre pareti, era un uomo fisicamente forte e saldo di nervi. Ramponi ai piedi, concentrato sui suoi movimenti, aveva sgombrato la mente da ogni altro pensiero. Non poteva permettersi di avere paura mentre, metro dopo metro, il cavo lo affondava nel girone nero della Nordwand.

La radio funzionava, Hellepart era sul margine inferiore del nevaio. Un attimo per aggiungere altri cento metri di cavo e così lui descrive quel momento nella sua relazione inviata alla Bergwacht di Monaco di Baviera: «Alla mia destra vidi avvicinarsi una spaccatura nera. Sapevo che dovevo passare di lì, che non c'era altra possibilità [...] La vista mi mozzò il fiato. Quel precipizio nero e minaccioso, rotto solo qua e là da cenge innevate, che sprofondava in un abisso senza fine, mi sgomentò. D'istinto levai gli occhi al cavo che come un filo sottile saliva a perdersi nel grigio. Ero là, piccolo uomo insignificante, appeso tra cielo e inferno ».

Hellepart fu calato nel vuoto assoluto. Il cavo d'acciaio sopra di lui tagliava l'orlo di ghiaccio e stridendo incideva le rocce sottostanti. Sotto di lui le nebbie turbinavano e impedivano la vista. Ecco i solchi profondi degli Ausstiegrisse e ancora più sotto il sinistro biancore del Ragno.

Altro stop, altri novanta metri di cavo. Per fortuna la radio portava le voci di Gramminger e di Friedli a rassicurarlo che tutto procedeva bene. Ora il vento aveva ripreso a soffiare, ma nel vento lui afferrò una voce. Gli pareva alla sua sinistra, e allora, puntando i ramponi sulla parete, cominciò a traversare.

Il cavo perse tensione e Hellepart dovette forzare quei pochi metri perché lì c'era un uomo accucciato su una cengia e semiavvolto in una tenda rossa. Si parlarono: l'uomo era un italiano e chiese una sigaretta. Hellepart non aveva che un pezzo di cioccolata e l'uomo non era che a due metri da lui. Corti afferrò la cioccolata, la ingoiò e sentì la fiamma della vita riaccendersi dentro di lui. Il cavo era bloccato in alto da un enorme spuntone roccioso. Hellepart chiese di essere tirato su perché da dove si trovava non aveva la benché minima possibilità di manovra. Con disperante lentezza Hellepart viene issato metro dopo metro, finché, con un misurato movimento di pendolo, si portò esattamente a piombo sopra la tenda di Corti. Chiese di essere calato ed evitò per quanto gli era possibile di muovere sassi e pietrisco che potevano colpire Corti sotto di lui.

Alle nove e quindici, dopo un'ora e un quarto sulla parete, Alfred Hellepart raggiunse Claudio Corti. Dalle parole concitate dell'italiano, Hellepart capì che i due tedeschi Nothdurft e Mayer erano saliti in vetta e che Longhi era più sotto, sulla parete. Hellepart chiamò a gran voce verso il basso, ma non ebbe risposta. Si rese conto che Corti era seriamente ferito alla testa, aveva le mani piagate e le cinghie dei ramponi tutte strappate. Anche appeso a un cavo d'acciaio, Corti non avrebbe mai potuto salire da solo. Hellepart decise di legare Corti al seggiolino Gramminger con le apposite cinghie. Poi si infilò sotto il seggiolino e se lo assicurò alla schiena con altre cinghie. Sia lui che Corti erano entrambi assicurati al cavo d'acciaio. Ora Hellepart doveva manovrare con i piedi e con le mani per tenersi sempre in equilibrio ben distante dalla roccia. In alto iniziarono a riavvolgere il cavo sul verricello. La tensione del cavo era pari alla tensione nervosa, di Hellepart e di tutti gli uomini sulla cima. Sull'orlo dove maggiore era lo sfregamento il cavo strideva e sibilava, tagliando la roccia.

Ma raggiunto l'orlo, l'inquietante attrito del cavo si attenuò, perché ora erano sul nevaio sommitale, dove divennero visibili gli uomini sulla vetta e dove sbucò perfino un raggio di sole.

Hellepart resse gli ultimi passi. Il peso sulle spalle era schiacciante. Sulla vetta fu liberato dalle cinghie e si gettò a terra, stremato.

Corti era salvo. Non così Longhi, le cui flebili invocazioni furono udite per l'ultima volta domenica 11 verso sera. Dopo Hellepart fu Lionel Terray a scendere appeso al cavo. Doveva raggiungere Longhi, poiché i due tedeschi, secondo quanto raccontava Corti, avevano continuato la scalata verso la vetta. Ma la radio si guastò; in vetta decisero di recuperare Terray, impossibilitato a comunicare con loro. E la montagna andava avvolgendosi di nubi rigonfie di pioggia e di neve. Si sarebbe ricominciato il giorno seguente.

Claudio Corti fu portato a valle da una squadra di uomini, fra cui Erich Friedli e Lionel Terray. La discesa fu estremamente difficile e pericolosa. Corti, avvolto in teli da bivacco, fu sistemato in una speciale barella, quasi una slitta. La parte terminale della parete Ovest è molto ripida e si doveva scendere assicurando con chiodi ogni calata di corda. Intanto le nubi nere erano deflagrate in una rabbiosa bufera.

La squadra, con Corti, dovette bivaccare sulla Ovest. Gli uomini rimasti sulla cima furono obbligati a scendere per non essere spazzati via. Un uomo era stato salvato, sarebbe stato assurdo ora mettere a repentaglio la vita dei soccorritori. Per Corti fu un'altra notte in parete; una notte da incubo, per il povero Claudio, torturato da tremendi dolori di stomaco e a tratti in preda al delirio; De Booy e Terray gli furono vicini e lo incoraggiarono nei momenti di lucidità.

Lunedì 12 agosto la parete si rivelò coperta di venti centimetri di neve fresca. L'uragano che si andava allontanando aveva stroncato, nella notte, la vita del povero Longhi e messo fine alla sua terribile agonia. La notizia corse lungo la galleria del trenino, raggiunse la stazione di Eigergletscher e passò di bocca in bocca fino al gruppo di soccorritori che si apprestava a risalire.

Longhi, strappato dalla tormenta dal suo terrazzino, penzolava dalla parete, appeso alle corde come un sacco. La sua testa, reclinata sulla spalla, era coperta da un sottile strato di neve.

Alla base del ghiacciaio, ad attendere Terray, Gramminger e tutta la squadra c'era la folla di giornalisti, di fotografi e dei soliti turisti curiosi. Da giorni i notiziari radio, i giornali locali e nazionali non facevano che riportare notizie e aggiornamenti sulla tragedia della Nord e sull'azione di salvataggio.

Si era scritto di tutto e ben poco corrispondeva alla realtà. Ma la suspense e l'isteria, l'eccitazione morbosa e la curiosità fine a se stessa erano dilaganti, alla Kleine Scheidegg, a Grindelwald e fino a Berna e a Zurigo.

Molti dei giornalisti presenti tentavano di ricostruire la dinamica della scalata e del salvataggio secondo schemi prefabbricati. Illazioni e sospetti, striscianti quando il salvataggio era in corso, divennero pesanti insinuazioni e velate accuse. Sul banco degli accusati finì naturalmente l'unico sopravvissuto, Claudio Corti.

Terray e De Booy se n'erano partiti. Gramminger e la Bergwacht dormirono alla Kleine Scheidegg e il giorno dopo, martedì 13 agosto, misero in strada il loro Kombi Volkswagen per rientrare a Monaco. Friedli e la sua squadra tornarono ai propri villaggi, mantenendo il loro abituale atteggiamento da montanari schivi e taciturni.

Per Claudio Corti, scampato alla Nord dell'Eiger e ricoverato nell'ospedale di Interlaken, si annunciava invece un inimmaginabile calvario.

Dei due tedeschi non c’era traccia e intorno al suo letto d'ospedale si strinse l'assedio dei giornalisti che pretendevano da lui l'esatta ricostruzione della scalata.

Claudio Corti aveva perso diciassette chili, il suo fisico era pesantemente prostrato e debilitato, la sua mente offuscata da quelle notti terribili appeso alla parete. Inoltre Claudio Corti non conosceva i nomi che individuavano i punti importanti della scalata; all' epoca solo alcuni erano ormai noti, ma solo agli alpinisti tedeschi.

Da lui si pretendevano invece dati precisi, orari, dettagli della scalata distribuiti nell' arco di dieci giorni e che sarebbe stato difficile ricordare anche a un alpinista tornato felicemente a valle.

Le sue dichiarazioni venivano immancabilmente contestate e messe in dubbio.

Nessuno ebbe rispetto per un uomo tornato alla vita dopo essere stato per dieci giorni in balia della montagna, e che portava dentro di sé il dolore di aver perso un caro amico.

Guido Tonella, il giornalista ticinese di casa a Grindelwald, entrava e usciva a piacimento dalla camera di Claudio Corti, gli poneva domande continue e intratteneva i giornalisti di varie nazionalità forte di essersi autopromosso interprete dello scalatore lecchese. Come poteva il povero Claudio Corti reagire a quell' assedio? Le reiterate domande suonavano come un vero e proprio interrogatorio e capitò che Claudio Corti, nello sforzo di ricordare, cadesse in qualche contraddizione. Si trattava di pagliuzze, particolari del tutto secondari riguardanti punti della parete o specifici orari, ma presto emerse la trave del sospetto: poiché Nothdurft e Mayer risultavano dispersi, l'affermazione di Corti che essi avevano proseguito la scalata non solo non venne creduta, ma prese corpo l'insinuazione che il lecchese nascondesse un'inconfessabile verità.

Tonella, interessato lui stesso a scrivere servizi a sensazione per giornali e riviste, avallò tale sospetto. E i giornali ci si buttarono come api sul miele.

Anche la prestigiosa rivista Life era presente. Il suo corrispondente, David Snell, firmò un ampio servizio che apparve nel numero 9, del 26 agosto 1957. Puntuale e corredato di numerose fotografie, Snell mantenne una distanza obiettiva e mostrò piena comprensione per il dramma di Claudio Corti.

Frastornato da tutta quella gente che andava e veniva dalla sua camera, la mente devastata dal dramma che aveva vissuto, Corti non aspettava altro che tornare a casa.

A dare l'affondo per metterlo definitivamente alla gogna, giornali, riviste e notiziari radiofonici presero a sostenere che i due tedeschi non avevano lasciato Corti in parete per proseguire la scalata: secondo loro, al contrario, Corti aveva fatto di tutto per non farsi superare e nell'ultimo bivacco, mentre i due erano rannicchiati vicino a lui, li aveva fatti precipitare per liberarsi di loro, tenendosi naturalmente la tenda!

Di fronte a queste infami accuse Corti, in quei giorni d'ospedale, venne lasciato solo e cercò di difendersi, in maniera scomposta e spesso angosciata.

In testa alla cordata degli accusatori comparve nientemeno che Heinrich Harrer, forte del suo prestigio di primo salitore della Nordwand.

Harrer in quei giorni aveva iniziato a scrivere Il Ragno bianco, il libro che avrebbe raccontato la storia dei tentativi di scalata della Nordwand e in particolare la storia della «sua» ascensione.

Dentro la dolorosa vicenda di Corti, Harrer intravide lo scoop, un eccitante récit noir da riservare al finale del suo libro! C'erano tutti gli elementi, l'Eiger e la sua parete « assassina », la dettagliata cronaca delle tragedie consumate sulla montagna, lui, l'autore, che ne aveva violato l'imprendibilità, una lunga serie di peana per gli alpinisti che erano arrivati in punta e ancor più per quelli, eroici e valorosi, « caduti» nell' impari lotta con la «killer mountain »!

Dulcis in fundo, la storia dell'italiano tanto rozzo e di scarso cervello quanto ambizioso e violento, naturalmente assetato di notorietà e di successo, il cui rapporto con la montagna non poteva che essere di bulimica voracità e di insaziabile protagonismo. Harrer aveva trovato nel dramma di Claudio Corti una storia che cinicamente cucinata finì per assumere i tratti di un poliziesco murder mystery con annessa una sorta di cronaca di un processo celebrato da «uomini integerrimi, sinceri, altruisti» quali erano, per Harrer, i personaggi i cui «autorevoli»pareri Harrer riportava come dichiarazioni di accusa.

Così le impressioni di chi stava nelle redazioni di Berna o di Zurigo, le conclusioni di tanti esperti che scrutavano la parete attraverso le spesse lenti dei binocoli dell'hotel Bellevue alla Scheidegg, fra una sigaretta e una tazza di tè, i fugaci per quanto sensazionali voli radenti di intrepidi piloti che avevano offerto ai giornalisti qualche incerta fotografia, tutto ciò venne sottoposto da Harrer e dal suo amico e giornalista Kurt Maix ad abilissimo montaggio.

Un esempio dello spregiudicato metro narrativo di Harrer e di Maix, dei due pesi e delle due misure: dedicarono due intere pagine per raccontare le scalate di Gunther Nothdurft, indubbiamente uno scalatore di alto livello, mentre non spesero una riga per le imprese di Corti che nel 1957 aveva già aperto diverse nuove vie di estrema difficoltà. Se questo era il metro, era impossibile - secondo Harrer - che Nothdurft avesse patito lancinanti dolori e che avesse rallentato la scalata e che quindi lui e Mayer fossero caduti vittime dell'Eiger. Ergo, se loro erano morti, Corti ne era il responsabile.

Tonella diede loro manforte: c'era una fotografia scattata da un aereo che il giornalista ticinese non aveva mai visto, ma che assunse come prova; scrisse infatti Tonella che il direttore dell'agenzia Photopress di Zurigo gli aveva « assicurato» che, nella foto, sul posto di bivacco di Corti si distinguevano chiaramente non una ma tre persone, a dimostrare che i due tedeschi non erano saliti per raggiungere la vetta, ma erano rimasti con lui. Corti dunque mentiva sull'ora della loro partenza per la vetta. Mentiva per nascondere la tremenda verità e cioè che si era «sbarazzato» di loro. Un successivo e obiettivo esame di quella foto dimostrò che si vedeva un solo uomo e che gli altri erano solo segni indistinti della parete!

Su alcuni giornali apparve l'insinuazione che la ferita alla testa di Corti non fosse dovuta alla caduta, ma provocata da un colpo di piccozza!

Harrer, non contento, organizzò una ricognizione di scalatori per setacciare la parte bassa e i ghiaioni terminali della parete al fine di trovare tracce a sostegno dell' accusa. Se anche uno solo dei corpi dei due tedeschi fosse stato rinvenuto, se solo uno zaino fosse stato trovato, la colpevolezza dell'italiano sarebbe stata incontestabile.

Sotto la pressione del tam tam della stampa, si mosse anche la polizia investigativa del Baden-Wiirttemberg nella persona del suo comandante, Hermann Lutz. Questi giunse a Grindelwald, prese contatto con la polizia cantonale, fece indagini, raccolse testimonianze e documenti.

Naturalmente non fu trovato il minimo indizio a carico di Claudio Corti, il quale, dopo due giorni di ospedale, prese il suo zaino, salì sulla Topolino di due amici lecchesi e fece ritorno alla sua Olginate.

Harrer si era in realtà messo a capo di un' ondata xenofoba per la quale l'italiano non era poi tanto diverso dalle migliaia di suoi connazionali emigranti che vivevano nelle baracche e lavoravano nelle fabbriche e nelle miniere delle linde cittadine svizzere e tedesche. Come poteva essere un valido scalatore se non sapeva nemmeno comunicare con i tedeschi? Come poteva quell'operaio italiano ambire alla gloria della Nordwand, riservata ai migliori? Quello non era che un infido mentitore; si contraddiceva, straparlava, era rozzo, un probabile criminale. Harrer ne distrusse scientemente l'etica e l'onore e, senza affermarlo a chiare lettere, lo additò al lettore come il colpevole della morte dei due tedeschi e dell' amico Stefano.

Alcune settimane dopo il suo rientro in Italia, Corti dovette perfino accettare di incontrare due funzionari della polizia del Baden-Wiirttemberg che volevano interrogarlo sulla vicenda. Incredibilmente i due poliziotti, ovviamente in borghese, erano accompagnati dal giornalista Guido Tonella, che ancora una volta operava da dubbio quanto interessato interprete, lui che non esitò, come Harrer, a sfruttare la penosa vicenda scrivendo articoli e interi servizi che ostinatamente diffamavano l'alpinista lecchese.

Gli stessi Mauri e Cassin che gli fecero più di una visita in quei due giorni di ospedale lo accusarono di scarsa serietà, di poca intelligenza e lo incolparono della morte di Stefano Longhi. Quella vicenda, ai loro occhi, aveva irrimediabilmente infangato il buon nome dell' alpinismo italiano.

Corti era precipitato in un dramma; Mauri e Cassin non gli tesero la mano, ma, influenzati dai pregiudizi altrui, lo accusarono a loro volta. Tornati a Lecco, trovarono la città in preda alle discussioni più accese. Corti era uno dei Ragni più stimati quanto a onestà e capacità alpinistica. A Olginate era un uomo benvoluto. Il consiglio del CAI, convocato per discutere una censura dell'operato di Corti, si divise. Cassin, che era il presidente, fu messo in minoranza e dovette dare le dimissioni. I Ragni si erano stretti attorno all' amico.

In Italia, il settimanale Tempo, avvalendosi di alcune interviste, confezionò un servizio che suonava pesantemente accusatorio. Corti dovette difendersi per vie legali.

Lo difesero i suoi amici Ragni, lo difesero Gramminger, Terray e De Booy che l'avevano conosciuto nelle drammatiche ore del suo salvataggio e che bollarono come «chiacchiere» l'ignobile tentativo di screditarlo. Non lo difese il CAI, che non aveva evidentemente colto l'ondata di pesante pregiudizio che sosteneva quella manovra.

Claudio soffrì per lunghi mesi e la sua passione per la montagna subì un forte scossone. Essa era in fondo la sua ragione di vita e non si esaurì, anzi, con il passare del tempo si rafforzò come espressione della sua volontà di riscatto.

L'Eiger, alla fine di quel 1957, nascondeva i corpi dei due tedeschi, a proposito dei quali Gramminger ebbe a dire che la montagna, prima o poi, li avrebbe restituiti: «Un giorno o l'altro verranno giù. Tutto viene giù da quella maledetta parete! » Parete che invece esibiva, lassù, mille e cinquecento metri sopra i prati di Alpiglen, il corpo di Stefano Longhi, prigioniero del ghiaccio durante l'inverno, penzolante e appeso alle corde nell'estate. Era una vista terribile, offensiva, sfacciata, scandalosa.

Il recupero del corpo di Longhi divenne il chiodo fisso delle guide dell'Oberland. Si erano autoescluse dall'opera di salvataggio e il loro comportamento aveva dato la stura alle polemiche.

Christian Rubi, un rappresentante delle guide di Wengen che aveva un ruolo influente nella comunità alpinistica, innescò una polemica feroce contro i von Almen, proprietari degli alberghi della Kleine Scheidegg. Questi erano, a suo dire, degli opportunisti che, sulle tragedie della Nordwand, avevano da un pezzo imparato a guadagnare un sacco di soldi. A loro il corpo di Longhi appeso alla parete e perennemente centrato dai binocoli fissi faceva comodo, perché centinaia di turisti salivano alla Scheidegg solo per vederlo. Accuse pesanti che imponevano una risposta.

I tedeschi dal canto loro non si erano rassegnati al mistero della morte dei loro due connazionali. Arrivò quell'autunno una squadra del Soccorso Alpino del Baden-Wiirttemberg - il land di Nothdurft e di Mayer - ancora con l'intento preciso di setacciare la parete e trovare qualche indizio.

Dall'Italia, in un'intervista rilasciata al settimanale Tempo, Corti dichiarava essere sua intenzione tornare al più presto sulla parete per recuperare il corpo del compagno. Voleva e doveva riscattarsi.

Voleva gridare il suo dolore sincero per la tragica perdita dell'amico.

 

Intanto, ancora nel 1958 sono tre scalatori tedeschi originari della Sassonia, Brandler, Raditschnig e Noichl a tentare la parete. Lothar Brandler era da poco tornato dalle cime di Lavaredo; lì, nel mese di luglio con i compagni Hasse, Lehne e Low, aveva stupito il mondo alpinistico con la storica impresa della via diretta alla Nord della Cima Grande. Quella via a goccia d'acqua aveva bucato l'orizzonte mediatico e avrebbe segnato un'altra pietra miliare nella storia dell'alpinismo: diventata semplicemente la Brandler-Hasse, avrebbe aperto una nuova epoca, quella delle « direttissime », capolavori di audacia e di tecnica. Brandler aveva già tentato la Nordwand nel 1956 a soli diciannove anni con l'amico Klaus Buschmann; si erano ritirati quando, poco sopra la Fessura Difficile, avevano visto precipitare la cordata di Dieter Sohnel e Walter Moosmuller che li precedeva di poco.

Brandler e compagni salirono in giornata al Ferro da Stiro. Erano i primi a indossare il casco, divenuto proprio allora in auge fra i rocciatori tedeschi. Si apprestarono a bivaccare quando una scarica di pietre li investì. Hias Noichl si ritrovò con la mano sinistra maciullata. I compagni lo medicarono sommariamente, bivaccarono e il giorno seguente iniziarono una ritirata dai rischi terribili. Soccorsi dalle guide quando si trovavano in prossimità dello Stollenloch, si videro poi recapitare un salatissimo conto per l'assistenza ricevuta, ma salvarono la pelle.

In quell'anno, solo una cordata uscì indenne dalla Nordwand: quella di Kurt Diemberger, leggendario alpinista, scrittore, cineasta, primo salitore del Broad Peak nel 1957 e del Dhaulagiri nel 1960, e Wolfgang Stefan.

 

Restava sempre in sospeso il recupero di Longhi. Corti non faceva che pensarci. Un gruppo speleologico di Verona si offrì di aiutarlo; occorrevano attrezzature sofisticate e notevoli capacità alpinistiche. Corti, accompagnato dalla sorella di Longhi e da alcuni membri del gruppo, nel maggio del 1959 tornò a Grindelwald. Ebbe un colloquio con il sindaco, il quale però gli comunicò che il recupero del corpo di Longhi spettava alle guide e agli uomini del soccorso del posto.

Corti e alcuni del gruppo salirono per la via normale, ma furono ostacolati dal maltempo e dovettero rinunciare. Le guide dell'Oberland erano comunque in subbuglio: non avrebbero potuto stare ancora una volta a guardare.

Infine, l'impresa del recupero di Longhi fu portata a termine da un gruppo di ben ventitré guide, che avevano ottenuto un cospicuo finanziamento da una rivista olandese alla quale avevano venduto i diritti di pubblicazione di tutta l'operazione.

La difficile impresa, realizzata con l'impiego di cavi e verricelli, fu compiuta il 9 e il 10 luglio 1959.

Fritz Jaun, muratore e guida alpina ventiduenne, fu calato nel baratro della parete. Fu un'operazione complicata e rischiosa. Jaun dovette essere a sua volta soccorso da un'altra guida, ma alla fine risalirono entrambi e il corpo di Stefano Longhi venne definitivamente strappato alla parete. Venne portato allo Jungfraujoch e caricato sul treno; alcuni operai italiani che lavoravano nella galleria - nel 1959 erano ancora molti gli italiani che emigravano in Svizzera per lavoro - deposero dei rododendri sulla salma dell' alpinista lecchese. Altri operai italiani gli diedero l'estremo saluto alla stazione della Kleine Scheidegg.

Nella piccola sala mortuaria di Lauterbrunnen, Gina, sorella di Longhi, riconobbe il corpo del fratello, ancora relativamente ben conservato. Finalmente Stefano Longhi poteva tornare alla sua Lecco, restituito alla famiglia, e riposare nel cimitero sotto la sua Grigna. Lo zaino, che conteneva alcuni effetti di Corti, come la sua macchina fotografica, sparì e Corti, che pure l'aveva fatto presente, non venne nemmeno informato.

 

Bisognerà attendere il 1961 per nuove vittorie sulla Nordwand. In quell'anno ben sette cordate raggiunsero vittoriosamente la vetta. Grande sensazione destò l'impresa di Toni Hiebeler, scrittore, giornalista e formidabile scalatore, Toni Kinshofer, Anderl Mannhardt e Walter Almberger, che dal 6 al 12 marzo 1961 portarono a termine la prima ascensione invernale della Nordwand lungo la via Heckmair. Il giovane tirolese di Innsbruck Adolf Mayr, alla fine di agosto tentò invece la prima ascensione solitaria, ma, nel traversare il difficile passaggio del Camino della Cascata, il mattino del secondo giorno di scalata, mancò un appiglio e precipitò.

Altre cinque salite si registrano nel mese di settembre del 1961: è la volta della prima cordata dell'Europa Orientale, i cecoslovacchi Zibrin e Kuchar che all' altezza del Ragno operano per la prima volta una variante, deviando sulle rocce di sinistra invece di risalire il pericoloso imbuto di neve. Poi una cordata di polacchi, di svizzeri e di un austriaco che fanno salita insieme seguiti da un'altra cordata di bavaresi e di austriaci. Toccherà poi agli svizzeri Hilti von Allmen e Uli Hiirlimann. Chiude la stagione del 1961 un'altra cordata di tirolesi austriaci, Erich Streng e Robert Troier: è la fine di settembre, la loro è classificata come la 23ª ascensione.

La fine di settembre del 1961 doveva riservare là sorpresa maggiore. Werner Stager, una delle guide che avevano organizzato l'operazione di recupero del corpo di Stefano Longhi, decise di andare a recuperare il materiale che era stato portato sulla vetta della montagna. Si trattava di materiale costoso che poteva essere riutilizzato: verricelli, freni, cavi, argani. Per il recupero bisognava risalire la parete Ovest.

Con un gruppo di guide Stager salì in vetta e vide che il materiale era serrato nel ghiaccio e inservibile. In parte venne comunque smosso e fatto scivolare giù per la parete. Un rotolo di cavi andò a incagliarsi in uno stretto canalone, dove si impigliò nelle rocce affioranti.

Nel recuperarlo le guide scoprirono i corpi di due alpinisti. Ormai decomposti, ma con gli indumenti da scalata ben conservati, i sacchi da montagna pieni di chiodi e moschettoni. La posizione dei due cadaveri, uno supino, l'altro rannicchiato su se stesso con le spalle alla parete, pareva suggerire che fossero stati travolti da una slavina. Non erano caduti poiché i vestiti erano intatti e un attento esame successivo appurò che i loro arti non erano rotti.

Le guide si ritirarono e risalirono l'indomani per riportare a valle i due corpi.

Nella Totenhalle di Lauterbrunnen l'enigma dell'Eiger venne svelato definitivamente. Le due salme erano i corpi di Gunther Nothdurft e Franz Mayer!.

La sorella di Mayer che risiedeva in Svizzera venne avvisata con un telegramma. A Lauterbrunnen riconobbe senza ombra di dubbio i vestiti e l'attrezzatura del fratello.

Dunque la versione di Claudio Corti era confermata. Corti aveva detto la verità, nel suo spigoloso dialetto lombardo, quando Alfred Hellepart lo aveva raggiunto nel baratro nero della Nordwand quella domenica del l1 agosto 1957. E non si era stancato di ripetere la verità per più di tre anni. Corti veniva improvvisamente riabilitato.

Ci si ricordò che qualcuno aveva affermato di aver notato due scalatori sul nevaio sommitale, alla mezzanotte di venerdì 9 agosto 1957. Ebbene, quella notizia ora acquistava drammatica attendibilità. Nothdurft e Mayer avevano scalato la Nordwand ed erano morti non lontano dalla vetta, sulla via del ritorno. Erano rimasti sepolti sotto la neve a pochi metri dalla traccia di salita che il giorno dopo, quel sabato 10 agosto 1957, decine di loro soccorritori avevano percorso.

Con il ritrovamento dei corpi, l'insieme di ipotesi, testimonianze e supposizioni orchestrate da Harrer e volte a condannare l'italiano era stato palesemente vanificato e le sue accuse, basate sul «sentito dire», platealmente smentite.

L'alpinista Franco Mandelli scrisse a Kurt Maix chiedendogli di riscrivere il capitolo dedicato al dramma del 1957. Ma nulla fu cambiato, tanto che Il Ragno bianco venne ripubblicato nel 1964 identico a prima.

Chi si aspettava che Harrer si affrettasse a integrare il suo libro con una nota che scagionasse Claudio Corti dalle pesanti accuse che gli aveva mosso doveva rimanere deluso. Il suo libro Il Ragno bianco aveva venduto centinaia di migliaia di copie. Harrer, forte del suo successo, si era arricchito ed era diventato famoso nel mondo.

Harrer non ebbe l'onestà di ammettere il proprio errore; lungi dal chiedere scusa a Claudio Corti, nel suo nuovo libro Parete Nord, un'edizione ulteriormente aggiornata del Ragno bianco e pubblicata nel 1999, egli ribadì le sue accuse nei confronti dell'italiano. Una posizione che squalifica la sua credibilità e, agli occhi del lettore accorto, solleva molti dubbi sul suo modo di leggere l'alpinismo.

Ancora cinque anni fa, Dino Piazza, uno dei famosi e autorevoli Ragni di Lecco, scrisse una lettera a Harrer, in tedesco, per chiedergli quale fosse la ragione di tanto ininterrotto accanimento. Non giunse mai alcuna risposta.

Un atteggiamento che rivela un modo di essere.

 

Pochi mesi dopo il ritrovamento dei due tedeschi, la riabilitazione di Claudio Corti trovò spazio anche in un libro, Arrampicare all'inferno, dell'americano Jack Olsen,* pubblicato quando ormai era giunto il tempo del riscatto dell' alpinismo italiano, con la prima salita italiana alla Nordwand coronata dal successo, nel 1962 di due cordate di forti alpinisti: Armando Aste, Franco Solina e Pierlorenzo Acquistapace da una parte, e Romano Perego con Andrea Mellano e Gildo Airoldi dall’altra, determinate ad arrivare in vetta, si incontrano sotto il Secondo Nevaio e decidono di continuare insieme. La progressione diviene più lenta ma continua e nonostante le scariche e il maltempo, tutti e sei arrivano in cima senza un graffio e scendono a valle vittoriosi.

* The Climb Up lo Hell, come recita il titolo originale, uscì nel 1962, ma venne pubblicato in edizione italiana da Longanesi solo nel 1964.

 

1968 – agosto. Claudio Corti, Pavel Pochly e Jiri Zrust, realizzano la 2° ascensione della parete Sudest del Grand Capucin per la via Lecco. - Satelliti del Mont Blanc du Tacul - Gruppo Mont Blanc du Tacul - Massiccio del Monte Bianco.