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Guido Magnone – (

 

 

Alta quasi 1000 metri, caratterizzata da gigantesche placche grigiastre lisce come vetro, solo una decina di anni prima era stata giudicata impossibile da quasi tutti gli alpinisti.

Il grande problema di quegli anni sul Monte Bianco era costituito dalla parete Ovest del Petit Dru.

Vi furono comunque tentativi: importante quello di Gilbert Vignes, che nel tratto inferiore della parete superò una durissima fessura in arrampicata libera, che ora appunto porta il suo nome.

Ma il tentativo più serio ebbe luogo nei primi giorni di Luglio (1-5) 1952, quando Lucien Berardini, Guido Magnone e Adrien Dagory riuscirono a vincere più di metà parete, superando lunghi tratti in esclusiva arrampicata artificiale, come il muro di 40 metri, il tetto del “Bloc coincé” e soprattutto il famoso “diedro di 90 metri”, forse il passaggio più impressionante e caratteristico di tutta la parete.

L’uso dei chiodi e dei cunei si era rivelato assolutamente indispensabile, ma sopra il diedro di 90 metri, la stanchezza, la sete e una placca insuperabile li costrinsero alla ritirata.

Proseguire sarebbe stato possibile solo con un’ampia pendolata a destra su un’immensa lastra inclinata, ma in tal modo essi si sarebbero tagliati ogni possibilità di ritirata, rischiando seriamente di perire per sfinimento.

Due settimane dopo (17 luglio 1952) essi sono nuovamente alla base del Dru, ma invece di ripercorrere la parte bassa della parete, per risparmiare tempo e fatica essi salgono la via Allain della parete Nord fino ad un terrazzino posto ad una quarantina di metri più in alto e a sinistra del punto massimo che essi avevano raggiunto sopra il diedro di 90 metri.

Con una traversata assai problematica, ricorrendo anche all’uso di alcuni chiodi ad espansione piantati in una placca assolutamente levigata, Guido Magnone, Lucien Berardini, Adrien Dagory e Marcel Lainé riescono a portarsi al punto di fermata sopra il diedro.

Poi compiono la pendolata, lasciando in loco una corda fissa per poter avere una ritirata sicura verso la parete nord in caso di abbandono.

Dopo un bivacco abbastanza tranquillo, i quattro, guidati da un Berardini in splendida forma, raggiungono la vetta arrampicando sempre in libera e superando difficoltà un po’ inferiori a quelle che essi avevano previsto in quel tratto.

Come è facile immaginare, la salita fu criticata assai duramente dagli ambienti alpinistici internazionali, o meglio fu totalmente disapprovato il metodo di realizzazione ed i mezzi impiegati.

In realtà si trattava di un’impresa di valore eccezionale, decisamente superiore al Capucin anche dal punto di vista psicologico.

Secondo molti è stata la più importante e significativa scalata di roccia aperta sulle Alpi nel dopoguerra, in quanto dette origine ad una nuova concezione dell’alpinismo.

D’altronde la via fu poi ripetuta dagli stessi scalatori in un sol tratto dalla base fino alla vetta.

Ciò che comunque scandalizzò, fu innanzi tutto l’uso dei chiodi ad espansione e poi la rottura dei “sacri” canoni di tempo e d’azione dell’impresa alpinistica.

Più volte abbiamo detto che l’alpinismo fortunatamente non ha regole e quindi spiace che in certe occasioni alcuni insorgano a censori oppure a paladini, difendendo una legge che in realtà non esiste.

Piuttosto si può esprimere un giudizio tra imprese differenti, ma non certo costringere gli alpinisti a seguire una certa linea.

Eppure proprio questa legge invisibile è accettata e subita da tutti in silenzio e porta ad orribili schiavitù, quale quella di realizzare l’impresa ad ogni costo, vivere l’alpinismo solo in funzione dell’impresa stessa e della “performance”, concepire la scalata solo come mezzo per raggiungere la vetta, che “deve” essere raggiunta e che rappresenta una meta ideale.

Forse quando sapremo liberarci di queste inibizioni, finalmente scopriremo un nuovo rapporto con la montagna e finalmente potremo agire in assoluta libertà nel gioco personale, infischiandocene di valori etici e morali, di obblighi interiori e di pressioni esterne, di costrizioni che ci portano amaramente a dar prova della nostra forza, in un ciclo ripetitivo dove il dolore e l’insoddisfazione riportano sempre a ricominciare daccapo.

Certo la schiavitù più triste è quella di dover sempre dimostrare agli altri ciò che si è fatto ed in che modo lo si è fatto.

Ma quando si comincerà finalmente a capire che il giudizio altrui non vale nulla e che vale soltanto in quanto la nostra insicurezza ha bisogno di una conferma esterna?

Fin quando gli alpinisti dovranno dichiarare di aver compiuto la tal via o la tal prima ascensione, fin quando una cordata si sentirà insoddisfatta perché dopo seicento metri di parete ha dovuto rinunciare a soli cento metri dalla vetta, fin quando non sarà spezzato il perfido incantesimo che porta a salire verso una vetta ideale, soffrendo ed espiando colpe che mai si sono commesse ma si è convinti di aver commesso, per poi ritornare delusi al piano e ricominciare tutto daccapo odiando se stessi ed i propri simili accusati di incomprensione, allora certo non vi sarà cresciuta alcuna ma soltanto come ciechi continueremo a girare nella grande arena del circo, suscitando i lazzi e le risa di un pubblico invisibile.

A suo modo anche Magnone fu un ribelle e lo fu coscientemente, se giunse ad affermare che “in ogni attività dell’uomo, chi cerca di creare qualcosa di nuovo che vada contro la tradizione vigente, deve aspettarsi una reazione di questo tipo”.

 

La vetta del Fitz Roy fu raggiunta nel 1951 da una spedizione francese e furono Lionel Terray e Guido Magnone a riuscire nell’impresa finale.

La scalata va considerata come una delle più straordinarie imprese dell’alpinismo di tutti i tempi, non solo per le fortissime difficoltà superate in arrampicata libera ed artificiale, degne della parete Ovest del Petit Dru, ma soprattutto perché fu la prima volta che due alpinisti si trovavano di fronte a problemi di tale portata.

Lionel Terray e Guido Magnone dettero prova di un coraggio grandissimo e di una tenacia senza pari. Inoltre aprirono la strada alle spedizioni successive, le quali poi poterono guardare con occhio diverso ai problemi ancora insoluti.

Va ricordato che durante la marcia d’approccio di questa spedizione, morì l’alpinista francese J. Poincenot, travolto dai flutti mentre attraversava un torrente impetuoso. A suo nome fu appunto dedicata una delle affilatissime guglie che fanno da satelliti al Fitz Roy.

 

1953 – 15/16/17 luglio. Jean Couzy, Adrien Dagory, Guido Magnone e André Vialatte effettuano la 4° ascensione alla parete Est del Grand Capucin, via Bonatti/Ghigo. - Satelliti del Mont Blanc du Tacul - Gruppo Mont Blanc du Tacul - Massiccio del Monte Bianco.