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Inseriamo il racconto di Gabriele Boccalatte tratto dal suo libro “Piccole e Grandi ore Alpine”.
1936 - 24 agosto. - Partenza alle 2. Traversiamo il Colle dell’Innominata. Percorso in alto il ghiacciaio, alle 6, siamo sotto la sconvolta crepaccia terminale dell’Aiguille Blanche de Peutérey.
La superiamo molto a sinistra e attraversiamo il pendio nevoso verso un canale di neve che sale a destra per circa 150 metri, fino a un piccolo intaglio su un crestone. Il canale è tutto cosparso di sassi; questo posto è assai pericoloso; è qui che è successa, pare, la disgrazia di Francis Maitland Balfour e la sua guida svizzera Johann Petrus. Il canale, a parte il forte pericolo, ci fa salire molto rapidamente e guadagnare tempo sul previsto, poiché credevamo di dover seguire il crestone di rocce alla sua destra; invece la mia idea di seguire il canale, è davvero brillante; coi ramponi si sale bene, ma si sbuffa anche meglio per l'andatura forzata. Una scarica formidabile di sassi ci fa considerare miracolosa l'andatura tenuta; un ritardo di due minuti ci avrebbe costata la vita! In una strozzatura del canale, si supera un tratto assai difficile, poi si continua bene fino all'intaglio, dove ci concediamo una breve fermata per uno spuntino (ore 7,30-8,15). Il luogo è estremamente selvaggio: le pareti che ci sovrastano, il Picco Gugliermina, l'abisso sullo sconvolto ghiacciaio, la formidabile Aiguille Noire de Peutérey e le montagne circostanti, formano un insieme di elementi di tale potenza, che supera ogni immaginazione.
Ora si tratta di continuare, cercando di star più al sicuro possibile dalle scariche di sassi; perciò bisogna tenersi possibilmente sulle crestine. A destra, la parete forma come un grande imbuto, dove precipitano tantissime pietre. Sopra di noi, un crestone frastagliato dà speranza di poter stare un pò al riparo e di fare, nello stesso tempo, un’arrampicata soddisfacente. Riprendiamo la marcia; il sole ci accoglie, ogni qual volta si gira un pò a destra dello spigolo. Saliamo direttamente; la roccia in principio è buona ed è assai interessante; paretine verticali con buoni appigli intercalate da fessure o caminetti aperti, piacevoli da superare; difficoltà di 4° grado, in alcuni tratti anche meno, ma in altri, molto più ardue, sia per la delicatezza dei passaggi, sia per la qualità della roccia, infida, da non permettere la minima disattenzione. Dopo essere saliti un pò a destra dello spigolo, si ritorna sul filo, superando un camino che esige contorsioni acrobatiche e faticose; giunto in alto del camino, alcuni sassi precipitano, e per poco non colpiscono Ninì. Si gira ora leggermente a sinistra, sempre con estrema precauzione, si sale poi diritti, e con bei passaggi, si arriva a un collettino immediatamente oltre la «arete du coq» che ha inizio al punto dove s’arriva mediante il «camino delle contorsioni». Traversata una placca di neve, si seguita per rocce friabili e pericolose; una traversata di pochi metri più in alto, esige una cautela estrema. Raggiunto uno spigolo, si continua un pò più al sicuro, su roccia migliore, fino ad arrivare su un grande gendarme isolato e staccato dalla parete, formante una spalla. Dal gendarme non si può più traversare; la parete piomba con un salto a picco; si deve invece seguire la cresta che lo unisce alla parete, e salire direttamente, per questa, alla vetta. Vi sono ancora circa 300 metri di parete. Al gendarme ci fermiamo. Visione straordinaria sulle immediate pareti, selvagge e tetre; e sul Monte Bianco, splendente al sole e meraviglioso nella sua imponenza.
Alle 11,10, ci rimettiamo in marcia; fa molto caldo e il sacco è pesante. Dobbiamo tenere un’andatura veloce per il pericolo dei sassi; ma dobbiamo pure non forzare troppo, per evitare di stancarci eccessivamente. Perciò saliamo sempre in sicurezza, uno alla volta. Dal gendarme si sale per due lunghezze di corda direttamente, poi si piega un pò a sinistra, per andare in direzione del tratto di parete immediatamente sotto la vetta. Ci sarebbe una via a destra, più breve e non difficile, ma non è bella e non è diritta. La roccia si fa più buona; qui c’è neve e cola molta acqua. Si va sempre a sinistra, per contornare una parete verticale. Passaggi divertenti. Giunti al livello di un caratteristico dente rosso, che è situato sulla cresta di sinistra, voltiamo di nuovo a destra; si traversa un canaletto nevoso; qui scorre molta acqua, e Ninì va a riempire la grande borraccia, prestataci da Piolti. Un passaggio verticale e difficile ci porta su rocce più rotte fiancheggianti a destra il grande «Corno di Rinoceronte», dopo il quale, la vetta non deve essere lontana. Io procedo con calma per tutta la lunghezza di corda; poi, trovato un comodo posto per sedermi, faccio salire Ninì. Trovo molto piacere, mentre ritiro la corda, nel contemplare il panorama, e nel fumare di continuo sigarette. In breve tempo si raggiunge uno spigolo che porta alle ultime estreme rocce dell'Aiguille Blanche de Peutérey, a circa 30-40 metri dalla vetta. Sostiamo sulla roccia, per poter stare all’asciutto. Sono le 13,30; è abbastanza presto, perciò, dopo il pranzo, ci lasciamo un pò cullare dal dolce far niente in questo meraviglioso sito, al cospetto del Monte Bianco, in una giornata purissima. Il caldo è molto forte: ci spogliamo quasi; a 4100 metri è davvero eccezionale un calore così intenso. Alle 14,45, scuotiamo di dosso la pigrizia e ci mettiamo i ramponi, per attraversare la calotta nevosa della vetta. Sarebbe una buona occasione per andare a tentare la parete del Monte Bianco, dopo un bivacco vicino al Col de Peutérey; le condizioni sono discrete e il tempo sicuro; ma la via, vista di qui, si presenta problematica (ciò non vuol dire che sia impossibile!) e molto lunga; e poi temo che, all’indomani di una scalata come quella effettuata or ora, non si possa essere perfettamente in grado, a meno di essere allenatissimi, per affrontare - oltre i 4000 metri - un’arrampicata sicuramente molto difficile e faticosa. La posta sarebbe meravigliosa: due prime ascensioni in una volta sola, e quali prime ascensioni! Ma purtroppo molto raramente si ha la forza di volontà di rinunciare ad una discesa facile, alla prospettiva di dormire tranquillamente al riparo, per mettersi in cammino verso un bivacco a 4000 metri e l’incognita di una via che richiede il dispendio di tutte le nostre energie; e questo perché si è già stanchi e soddisfatti, perché si ha la convinzione che un’impresa di quel genere, dopo una prima ascensione all'Aiguille Blanche de Peutérey faticosa e sfibrante, appartenga ad un genere d’alpinismo che supera il limite di godimento, sia pure acquistato a prezzo di immani fatiche! La discesa della calotta, in un certo punto, è alquanto delicata; la neve marcia parte, lasciando scoperto il ghiaccio vivo; con qualche gradino superiamo la difficoltà e poi, in breve, siamo alle rocce della cresta verso il Picco Gugliermina. La discesa è tutta noiosa; rocce rotte, dove non si può andare in fretta e dove bisogna stare attenti a non sbagliare strada; ma io mi ricordo bene il percorso (a distanza di 8 anni) e alle 19,15, dopo la «traversata», giungiamo finalmente al Bivacco Craveri.