“Ricco e romantico scalatore italiano”: così lo ricorda la storia dell’alpinismo che segnala anche la dedicatoria della Cresta Rey del Monte Rosa a lui assegnata.
Nel 1899 compì il giro della Testa del Cervino (parete Sud).
Sulla cresta di Furggen arrivò il 24 agosto 1889 con Jean Antoine Maquignaz e Amé Maquignaz.
Si trattò di un tentativo di salita con 80 metri di corda lanciata dall’alto.
Il 28 Agosto del 1889, sempre sulla Furggen, mise a segno la discesa dall’alto con scala di corda e, su questa cresta, nel 1900 compì una ricognizione esplorativa.
Quanto mai prolifico in fatto di imprese sul Cervino, fu sulla cresta di Zmutt il 16 settembre 1900 con Daniele, Ange e Jean Antoine Maquignaz.
Il 22 agosto 1922 tornò sul “Corno” per la cresta De Amicis, con Ange Maquignaz.
La salita procedette fino a quota 3558 metri.
Guido Rey di Torino che nutrì per le Alpi un immenso amore, e vivendo per molti anni al Breuil, divenne un profondo conoscitore del gruppo del Cervino. (da non confondere con Emilio Rey guida alpina).
A Rey spetta un posto d’eccezione nella letteratura alpina. Le sue opere sono troppo numerose per essere citate. Valgono per tutte “Il Monte Cervino” classico della letteratura di montagna e il famoso “Alpinismo acrobatico”, moderno e affascinante.
L’attività di Rey è vastissima.
Egli conobbe le principali cime delle Alpi, dal Delfinato alle Dolomiti, arrampicando dal 1885 al 1913.
Guido Rey
Come testimoniano le date della sua esistenza terrena fu un uomo "d'altri tempi", anche nel suo rapporto con la montagna.
Nato da una famiglia illustre e ricca (era nipote di Quintino Sella), ebbe nel nonno il primo iniziatore alla montagna: colui che all'età di tredici anni gli fece conoscere il Cervino da un'altura delle Alpi biellesi.
La sua fama è legata soprattutto alle sue capacità letterarie, anche se il suo palmarès è di tutto rispetto: le prime della Ciamarella, della nord della Bessanese, della Punta Bianca sulla cresta di Tiefenmatten, la prima italiana della Meije (con Alessandro Sella).
Scalò cinque volte il Cervino ed altrettante il Monviso (due vie nuove).
Dobbiamo registrare, tra l'altro, la prima italiana e seconda assoluta della cresta nord della Grivola, la parete sud del Lyskamm, la Dent d'Hérens, per limitarci alle imprese più importanti.
Perduto il fratello in un incidente di montagna, mentre procedeva senza guida, Guido Rey cambiò il suo atteggiamento verso le scalate e non si avventurò più senza essere accompagnato da guide.
Il suo incontro con Ugo De Amicis gli fece scoprire, a partire dal 1904, il massiccio del Bianco, che fino ad allora il Rey aveva considerato terreno dei "maestri" inglesi.
Di questo periodo possiamo elencare i suoi successi sui Grépon, Chamoz, Requin, Dru e Aiguille Verte.
Di scoperta in scoperta passò alle Dolomiti: il Catinaccio, le Torri di Vajolet, la parete sud della Marmolada (a lungo gli fu attribuita la prima, ma in realtà sua fu solo una celeberrima descrizione), la Tofana di Roces, l'Antelao (1913). Ne ricavò il materiale per il suo libro "Alpinismo Acrobatico" (1914).
Innamorato del Cervino lo salì più volte lungo varie vie, ma la sua ossessione era l'inviolata cresta del Furggen. Dopo alcuni tentativi falliti riuscì a salirla con l'escamotage di una scala di corda calata dall'alto (1899). Il suo amore per quella speciale montagna lo indusse a farsi costruire una villa al Breuil, tuttora esistente. Visto il suo sentimento romantico nei confronti dell'alpinismo possiamo dire che morì in tempo: prima che il Breuil diventasse Cervinia.
Nel 1899 è il turno di Guido Rey che vorrebbe legare il suo nome a quello della soluzione dell’ultimo problema ancora insoluto della Gran Becca. (L'inviolata Cresta del Furggen).
Sappiamo che i suoi tentativi durarono diverse stagioni non mancando di ardimento e di audacia.
Alla fine, per percorrere lo strapiombo almeno in discesa, è noto che Rey decise di calarsi dell’alto, non bastando una semplice corda, con una scala di corda e pioli di legno, per svelare il mistero di quei metri inaccessibili.
Il primo però a non credere di aver risolto il problema con il sotterfugio fu proprio Guido Rey.
Da: La Storia dell’Alpinismo
di: Gian Piero Motti.
Volume 1
pag. 252/254.
Se c’è stato un personaggio dell’alpinismo idealizzato e discusso, esaltato e criticato, questo è Guido Rey, cui toccò pure di essere definito “maestro e poeta dell’alpinismo italiano”, come si legge sulle tessere del Club Alpino Italiano, dove è riportata una sua frase celebre: “Io credo e credetti la lotta con l’Alpe utile come un lavoro, nobile come un’arte, bella come una fede”.
Guido Rey ha molti meriti, indubbiamente, sia come alpinista che come scrittore.
Torinese, colto, d’animo nobile e raffinato, Rey rappresenta alla perfezione quella figura di alpinista tipica in una certa letteratura dell’epoca.
Il suo alpinismo, viste le premesse, fu dunque “classico” come quello di Julius Kugy e come Kugy anche Rey forse idealizzò un po’ troppo le guide che agivano accanto a lui.
Ma “…ciò posto, resta il fatto che se si va a vedere lo sconfinato elenco delle ascensioni di Guido Rey, ci si trova in presenza di un autentico conoscitore della montagna e buongustaio dell’alpinismo. Che ampiezza di interessi, che ricchezza di salite, e che qualità di tono!… Chi crede che in Rey ci fosse solo il pacifico poeta della montagna e non il combattente animoso si disinganni di fronte a questa battaglia ostinata, tenace, testarda fino a barare, contro quell’ultima cresta del monte a cui aveva consacrato se stesso, il proprio ingegno, quasi la propria esistenza…” (M. Mila, Cento anni di alpinismo italiano).
Guido Rey ed il Cervino furono una cosa sola. A questa montagna dedicò un libro intero, che, malgrado la prosa un po’ abbondante e compiaciuta, resta pur sempre un capolavoro della letteratura alpinistica e testimonia quale turbine di sentimenti si agitasse in quell’uomo posto di fronte ai monti.
Alcune descrizioni, ricche di aggettivi insoliti, preziose nel loro linguaggio, iperboliche, sono tra le pagine più interessanti dell’alpinismo. Cos’è piuttosto che oggi ci fa un po’ sorridere è la “troppa” serietà di Rey, quella sua assoluta mancanza di “humour”, quel suo costante impegno ad essere costretto in quegli abiti aristocratici e serissimi, quella totale mancanza di concessioni verso il semplice, il terreno, il quotidiano. Abbiamo visto l’alpinista, che è fuori discussione in ogni caso: è utile elencare tutte le prime ascensioni, le realizzazioni, le imprese di valore internazionale. E’ un curriculum impressionante, che spazia su tutta la catena alpina, dalle Alpi Marittime alle Dolomiti.
Parliamo piuttosto dello scrittore e dell’uomo.
Se si può rimproverare qualcosa a Rey, questo è la troppa retorica dei suoi scritti ed una certa mistificazione che vien fatta dell’alpinista e del suo agire.
Non sappiamo oggi con esattezza come si svolsero le salite di Rey e quindi possiamo anche pensare che esse fossero accompagnate da sinfonie celestiali e che i componenti della cordata fossero costantemente squisiti e raffinati nel loro modo di fare. Ma chi l’alpinismo ha praticato, sa che vi è una contraddizione estrema in quest’attività ed in coloro che la praticano. Certo, vi troviamo sempre tutti i sentimenti così magnificamente espressi da Rey, ma vi troviamo anche quell’altro aspetto contraddittorio di cui Rey mai ha scritto e parlato. Una salita è fatta sì di piacere, ma anche di sofferenza, di atteggiamenti brutali e, anche se l’aggettivo oggi fa un po’ ridere, “volgari”, di situazioni di tensione estrema che si liberano in raffiche di imprecazioni non certo edificanti. Accanto al nobile, nell’uomo vi è sempre il meno nobile, che non va occultato, ma che va accettato e capito, proprio per mettere a fuoco la parte più nobile. Se invece a tutti costi si tende all’ancora più nobile, il quadro ne risulta falso ed artificioso. Ma l’epoca in cui Rey visse tendeva all’alto e al sublime, non si degnava di guardare verso le miserie umane, che non accettava nemmeno in se stesse e che disprezzava con commiserazione. Innanzi tutto Rey va capito, prima che criticato. E’ vero, l’eredità retorica che lascia all’alpinismo italiano è pesante, ma bisogna anche ammettere che attraverso i suoi scritti (soprattutto Alpinismo acrobatico dal titolo “proibito”, per l’epoca, ma dal contenuto molto innocente) furono moltissimi coloro che conobbero e si avvicinarono alla montagna e all’alpinismo. In ogni caso, dal punto di vista storico, i suoi scritti sono la diretta testimonianza di un’epoca precisa della storia dell’alpinismo, descritta con estrema bravura.