1972 – Lo stile di arrampicata di Enzo Cozzolino è puro come il suo animo.
Il suo sogno è di aprire una nuova via su di una parete dalla roccia talmente compatta da non consentire nessun tipo di chiodatura. Scrive, infatti: «Solo in questo caso non si sarebbe potuto ricorrere a sotterfugi, che volevano significare una mancanza di scrupoli nei confronti dell’alpinismo.». Questa parete ideale la trova sulla Sud della Scotoni. E’ lì che nasce e prende piede l’idea di aprire una nuova via, quella che poi chiamerà “Dei Fachiri”. Una via di 600 metri aperta in invernale e superata con l’impiego di soli 12 chiodi di assicurazione.
In Cozzolino la gioia per l’impresa è grande, ed è aumentata «dalla consapevolezza di aver tracciato con Flavio Ghio una linea di salita di massima difficoltà in piena coerenza con quelle che erano le sue idee in fatto di alpinismo».
Entrambi calzano scarpe da pallacanestro e superano veramente in libera passaggi di VI/VI+ (5c/6a).
1975 - Flavio Ghio sale la via Micheluzzi al Piz Ciavazes da solo in due ore e mezza.
Ecco il suo racconto dopo la salita: «Ho sperato di essere più veloce; ho sperato.». Ora quel muro riarso dal sole è dietro di me. Sto vagando come un naufrago su grandi fiumane di pietra e di sabbia. E’ il pianoro sommitale. Un caldo opprimente, vapori si alzano tremuli e incerti.
La sete, la voglia di bere all’infinito acqua pura.
L’alpinismo? Allenamenti, corse, diete, per poi passare sicuri dove altri hanno il respiro affannato e le mani tremanti.
Ora s’è alzato il vento, turbini di sabbia fanno male al viso e bruciano negli occhi. Ho tanta sete. Avvicino le labbra gonfie alla mota dove scorrono rivoli d’acqua torbida e giallastra che devo sputare subito. Gli scarponi sprofondano nel fango.
L’alpinismo? Qualche via nuova aperta con pochi chiodi. E’ possibile che solo questo si possa dare agli altri alpinisti? Non so più capire. Ma quando potrò bere? Ora sento uno scroscio. Cammino come se il rumore non esistesse. Ma ora è diventato il mio pensiero dominante. Vedo il torrente l’acqua, limpida, chiara.
Sto correndo. Ora mi bagno il viso, i capelli, il maglione, il petto. L’acqua mi va di traverso, tossisco, ritorno ad immergermi. Sono sazio.
Sento che qualcosa muore e non solo la sete.
L’alpinismo? Che cos’è questo schifo che alcuni chiamano sana e sportiva competizione e altri mascherano in modo stupido e goffo?
Sì, sto cercando un alpinismo più umano e non una fuga dalla vita quotidiana.
Anche in montagna puoi soffrire, puoi piangere; puoi perdere l’amico più caro, puoi bestemmiare.
Cerco un alpinismo che non si risolva in un’ottusa ricerca delle difficoltà.
Non il VII grado fatto di lunghe corse, di traversate impossibili a pochi metri da terra, di diete e di docce fredde.
Sono solo specchietti per le allodole e non mi interessano più.
«Esiste un VII grado che è molto più difficile da raggiungere e che trascende ogni scala di valutazione, quello che ti fa sentire prima uomo e poi alpinista».