Hans Dülfer nacque il 23 maggio del 1892 a Barmen. Suo padre esercitava il commercio in proprio e accompagnò più tardi il figlio in molte ascensioni. Proprio con il padre Emil, Hans Dülfer intraprese a quindici anni il suo primo viaggio nelle Alpi, nel 1907, nell’Allgäu. Nel 1910, di nuovo con il padre, saliva sul Silvretta. Nel 1911il giovane Dülfer si trasferì da Dortmund a Monaco, dove conobbe una serie di famosi alpinisti. Ubbidendo al desiderio del padre, studiò in un primo tempo medicina, in seguito si iscrisse alla facoltà di Legge e quindi Filosofia. Le sue grandi passioni erano però la musica e la roccia. Dülfer era un bravo pianista e il miglior scalatore della sua epoca. In soli quattro anni – dal 1911 al 1914 – aprì cinquanta nuove vie nel Kaiser, nel Rofan e nelle Dolomiti. Fu l’inventore della “traversata a corda” con discesa in diagonale, e di una particolare tecnica per calarsi in doppia, la “posizione seduta alla Dülfer”.
Dopo la prima ascensione del camino sul Totenkirchl, da allora battezzato con il suo nome, nel 1911, e della parete Est del Fleischbank nel 1912, Dülfer divenne la nuova stella del firmamento alpinistico. Nel 1913 raccolse i più grandi successi: prima salita diretta della parete Ovest del Totenkirchl – una via che poté essere ripercorsa solo dopo la guerra – prima salita in libera della Torre del Diavolo, nel gruppo dei Cadini di Misurina e apertura di una via sulla parete Ovest della Cima Grande di Lavaredo. La sua impresa più straordinaria fu la prima solitaria della Fessura Dülfer nel Wilder Kaiser. Nel 1914, con la salita sulla parete Sud dell’Odla di Cisles, aprì la sua ultima via. A Dülfer dobbiamo la scoperta del gruppo di Larséc nel Catinaccio, su cui egli scrisse in seguito una monografia per l’annuario del DAV e dell’ÖAV.
Hans Dülfer era membro del club “Bayerland”, tenne varie conferenze, ma scrisse purtroppo pochissimo.
Hanne Franz, scalatrice, ebbe una relazione con Hans Dülfer con cui visse un periodo in stretta intimità nei pressi di Kufstein.
Sono stati in inclusi due articoli (“Sul Predigtstuhl nei Kaisergebirge” e “Classifica delle difficoltà d’arrampicata”) perché, sono importanti per la biografia di Hans Dülfer e perché, in quanto scritti autentici di Dülfer, gli rendono pienamente giustizia.
Come fu possibile che Hans Dülfer, che viveva lontano dalle Alpi, sia potuto diventare in così breve tempo un grande maestro? Egli possedeva un entusiasmo molto concreto per la roccia. Era un matematico della montagna. Strinse poi alcune amicizie molto stimolanti. Nel 1911 conobbe Hans Fiechtl, da cui imparò varie cose in relazione alla corda e ai chiodi, e con il quale in seguito lavorò addirittura a un tipo di chiodi di nuova concezione. Dülfer conosceva e ammirava Paul Preuss, più anziano di lui di sei anni. Studiava l’esuberante Tita Piaz e gli altri protagonisti dei suoi tempi: Otto Herzog, Georg Sixt, Rudi Redlich. Tra le star dell’alpinismo era la più giovane, e forse anche la più schiva. Detestava le fanfaronate. Era instancabile proprio come Paul Preuss; nel solo 1912 scalò 155 vette, nel 1913 addirittura 172, tra cui 23 prime.
Dülfer era un intellettuale, un alpinista razionale. Dotato di grandi capacità di concentrazione e volontà, era freddo e riflessivo. Alto di statura, era piuttosto gracile di aspetto. Ben presto però seppe sviluppare il suo talento e la sua forza. Ma anche dopo aver riportato grandi successi, rimase semplice e spassionato.
Sicuramente Dülfer era un alpinista meno completo di Paul Preuss. Sciatore modesto aveva esperienza sul ghiaccio ma nessuna ambizione di estendere le sue imprese alle Alpi Occidentali.
Hans Dülfer era, come logico d’altronde per i suoi vent’anni, così avvinto da un amore esclusivo per l’arrampicata su roccia da voler innanzitutto diventare padrone assoluto delle Alpi Calcaree e delle Dolomiti. Considerava la parete Est del Fleischbank, su cui Otto Herzog, Hans Fiechtl e Georg Sixt avevano fallito, il suo capolavoro; riteneva invece che il percorso più difficile da lui compiuto fosse la fessura tra la Christaturm e il Fleischbank.
Della vita privata di Hans Dülfer sappiamo molto poco. Il matrimonio non riuscito dei suoi genitori può forse avere influito su di lui. Forse la sua precoce relazione con la scalatrice Hanne Franz, con cui visse in stretta intimità nei pressi di Kufstein, fu una conseguenza di quella prima, infelice, esperienza. Nel 1912 il padre gli consentì finalmente di dedicarsi allo studio della musica, a cui Hans si applicò con lo stesso entusiasmo che dimostrava per l’alpinismo.
Dülfer non era una persona irruente, né con le donne né sulla roccia. Nei rifugi alpini preferiva rimanere nell’ombra. Tutti lo riconoscevano, nella sua giacca di lino sbiadita ma Dülfer si limitava in genere a canticchiare qualche motivo fra sé, dando un’impressione di inavvicinabilità. Parlava poco, ma dava corpo ai propri progetti con rara coerenza.
Fra le donne che praticavano l’alpinismo regnava allora un clima di competitività, proprio come fra gli uomini. Tali erano ad esempio i rapporti tra Hanne Franz ed Emmy Hartwich, amica di Paul Preuss.
Hans Dülfer era indubbiamente una forte personalità, un uomo che viveva intensamente. Era anche un arrampicatore libero molto dotato, in possesso di una perfetta padronanza di tutti i mezzi tecnici dei suoi tempi. Era però disposto – e in questo era diverso da Preuss – a fare ricorso a tutti i mezzi artificiali a sua disposizione per condurre a termine una prima ascensione, dopo averla studiata e preparata fin nei minimi dettagli. Una volta, ad esempio, scalò insieme a Willi von Redwitz la parete Ovest del Totenkirchl portarono con sé ben quaranta metri di corda, ventisei chiodi e una punta per forare la roccia. I due alpinisti avevano inoltre attrezzato il punto chiave della salita, la traversata, collocando una corda. Non fecero uso in loco del “perforatore”, che si erano però ben guardati dal lasciare a casa: una dimostrazione del fatto che Dülfer non condivideva i principi di Preuss. Egli era dell’opinione che i mezzi artificiali dovessero servire a superare i passaggi altrimenti invalicabili. Tale concezione ebbe come conseguenza un sovvertimento delle consuetudini alpinistiche, un capovolgimento dei valori riconosciuti, e, parallelamente all’affermarsi di questa nuova mentalità, si impose una nuova visione dei problemi di roccia e del modo di risolverli.
Non è stato accertato se Dülfer abbia preso parte o meno alla “polemica sui chiodi”. Stando ai pochi accenni in merito, si ritiene che egli sia stato più o meno d’accordo con Preuss, ma che, andando oltre i confini da lui posti per l’arrampicata libera, impiegasse con disinvoltura i chiodi per la progressione. Rispetto a Preuss, che traeva energia dalle sue risorse interiore, Dülfer era più portato alla conquista di nuove, concrete frontiere alpinistiche.
E’ sicuramente errato affermare che Dülfer e Preuss siano stati rispettivamente il tecnico e l’arrampicatore libero durante la fase di trasformazione dell’alpinismo, negli anni precedenti la prima guerra mondiale.
Reinhold Messner ha ripetuto il grande dietro della parete Sud del Catinaccio d’Antermoia nel gruppo del Catinaccio e si è levato … il casco davanti a Dülfer, che aprì questa via in parte da solo, dopo che Dibona e Piaz avevamo fallito nell’impresa e la sua compagna di scalata Hanne Franz al termine del secondo tiro di corda aveva deciso di non proseguire.
Quali erano i limiti delle capacità di Dülfer in arrampicata libera? E’ indubbio che Dülfer, con i propri mezzi, non sarebbe riuscito a superare la parete Nord della Furchetta. Benché egli – dopo l’esplorazione compiuta con Luis Trenker fino a pochi metri sotto la sporgenza (Pulpito Dulfer) – sperasse di poter fare un secondo tentativo, non aveva reali possibilità di portare a termine l’impresa.
Sulla parete diretta della cima, scalata per la prima volta nel 1932 dalla cordata Vinatzer –Peristi, le difficoltà erano intorno al VII grado.
Più a destra, dove Solleder e Wiessner erano passati nel 1925, anche Dulfer avrebbe potuto farcela qualora avesse ritenuto arrampicabili l’ostica serie di fessure che incidono dal basso la porzione destra della parete che porta alla vetta. Nell’ambito delle proprie capacità, Dulfer arrampicava con stile perfetto, armonico, ritmico: una danza sul verticale.
Nel 1914, a soli 22 anni, Hans Dülfer si presentò come volontario al Primo Battaglione Bavarese di Sciatori. Il 15 giugno 1915, nel terzo anniversario della scalata della parete Est del Fleischbank, da lui salita quattro volte Dulfer cadde sul fronte ovest, nei pressi di Arras. Con lui moriva un artista esordiente, un arrampicatore amante delle muse.
Hans Dülfer colpiva i compagni di cordata per l’estrema calma, per la sicurezza e la precisione in libera. Del suo impegno di chiodi e moschettoni pochi parlano. Era certamente molto abile nel maneggiare la corda, dei chiodi faceva raramente uso. Alla base dei suoi successi stavano le sue capacità, non certo la tecnica. Nel necrologio che Werner Schaarschmidt gli dedicò, «Muore giovane chi è amato dagli dei», Dülfer viene così caratterizzato: «Era un nemico giurato del filisteismo alpino, e spesso non ne faceva mistero con quelli che consideravano lecito e importante solo quanto compiuto da loro, ritenendo tutto il resto una pazzia. E dato che il numero dei filistei in questo sport è molto grande, grande era anche il numero dei suoi collerici avversari. Aveva invece molti amici sinceri fra la gente semplice, nella cerchia delle guide e tra i pochi che lo conoscevano bene. In generale però era poco disposto alla confidenza; la sua vita interiore era talmente ricca da non fargli desiderare di stringere facili, superficiali rapporti con il suo prossimo».
Hans Dülfer era molto in anticipo sui tempi.
Alcuni detrattori videro inizialmente nell’arrampicata alla maniera di Dülfer un allontanamento dai «veri valori dell’alpinismo»; altri si augurarono che quel suo stile “acrobatico” finisse presto nel nulla a causa delle sue stesse difficoltà. La maggior parte dei grandi alpinisti adottò invece il modello di Dülfer.
Dopo la prima guerra mondiale, la nuova generazione riprese il cammino là dove Dülfer l’aveva interrotto. Il fatto che grazie alla tecnica della corda e dei chiodi fosse possibile risolvere problemi sempre nuovi, fu determinante per il diffondersi delle forme più esasperate di arrampicata artificiale.
Nello spirito e nelle azioni, Hans Dülfer e Paul Preuss non erano poi così lontani quanto oggi potrebbero sembrare: si rispettavano, e dopo la guerra avrebbero potuto insieme avviare l’alpinismo su una strada diversa dall’attuale.
Hans Dülfer ha impiegato la corda e i chiodi in modo coerente, per la sicurezza e per la progressione. Così facendo, si è allontanato dalle idee di Preuss, non esplicitamente con le sue dichiarazioni, bensì nei fratti. Dülfer si è poi applicato a rendere i mezzi tecnici più comodi e leggeri. L’alpinismo ha seguito la via da lui tracciata verso una migliore dotazione, verso una maggiore sicurezza in parallelo al crescere delle difficoltà. Grazie a Dülfer, il Wilder Kaiser è diventato l’alta scuola dell’alpinismo sportivo – tecnologico.
Solo negli ultimi vent’anni si è avuto un ritorno all’arrampicata sportiva pura inaugurata da Albert Frederick Mummery e da Paul Preuss. L’arrampicata libera, dopo una prima sconfitta da parte dell’alpinismo tecnologico, potrà forse domani assumere nuova popolarità purché si accetti di commisurare la sicurezza dello scalatore al rischio, che cresce con l’aumentare delle difficoltà, rinunciando quindi a una sicurezza assoluta, al cento per cento.
A quanto si sappia, Dülfer non “volò” mai, e ciò significa che era un arrampicatore sicuro. Sotto questo aspetto la sua posizione non divergeva da quella di Paul Preuss, e difatti Dülfer non si è mai posto in scritti o discorsi come suo antagonista.
L’alpinismo tecnologico è inevitabilmente finito in un vicolo cieco.
Il moderno interesse per l’arrampicata libera più pura ha da un lato il significato di un ritorno a Paul Preuss, senza la sua assoluta disponibilità al rischio, e dall’altro di un omaggio allo stile di Hans Dülfer, con l’aggiunta di mezzi tecnici nuovi come la corda in perlon, il blocchetto da incastro (nut), il friend.
Ciò che oggi viene indicato con il nome di “arrampicata sportiva” o free climbing, può essere ricondotto in più o meno ampia misura a una combinazione delle idee di Paul Preuss e delle imprese di Hans Dülfer.
Gli scritti di Hans Dülfer che ora seguono sono importanti per comprendere lo spirito dell’epoca, dal momento che il primo cita i principi di Preuss – senza svelare se in piena serietà o con una sfumatura d’ironia – e il secondo prende posizione su una proposta avanzata da Karl Planck (figlio del premio Nobel Max Plance), che aveva suggerito l’adozione di una scala di difficoltà di sei gradi, dalla Zugspitze fino alla parete Est del Fleischbank.
HANS DÜLFER - 1911
Dall’inizio di agosto, quando scalai due volte da solo il Campanile Basso di Brenta, ad oggi – Inizio di ottobre – questa è stata la prima salita in cui abbia potuto di nuovo gustare tutto il fascino della montagna in solitudine. L’arrampicata ha inizio con un passaggio estremamente interessante ma non difficilissimo, la Traversata Mateják; a qualche metro di distanza, si obliqua a sinistra in un camino nascosto.
Si continua poi a salire per fenditure e brevi tratti di parete. Il punto più bello è costituito da un camino aperto, spostato leggermente a destra rispetto alla via Mateják vera e propria. Da qui, da un posticino protetto incuneato tra la parete e un lastrone libero, lo sguardo spazia in lontananza verso nordest.
In questo luogo incantevole, probabilmente il più bello di tutto il Predigtstuhl, ho indugiato a lungo.
A partire dal punto più elevato di questa grande cresta svettante, la via ridiscende dall’altra parte, per poi tornare a salire per un lungo, meno ripido tratto fino alla parete terminale. Mentre la via Ostler la aggira sulla destra, quando si segue lo spigolo Nord è decisamente preferibile salirla direttamente. La parete terminale è però appena più facile della via Mateják. Stando lassù, sulla cima Nord, mi accorgo delle forti somiglianze esistenti tra la scalata del Campanile Basso di Brenta per la via ordinaria e l’ascensione dello spigolo Nord; le difficoltà all’inizio e alla fine, i tratti più facili al centro; qui la Traversata Mateják, là il vecchio attacco, là le pareti Berger e Ampferer, qui la grande cresta svettante e la parete terminale.
Ben presto raggiungo la cima principale e supero l’ultimo salto, alto una trentina di meri, detto “cresta Sud”, scendendo poi dall’altro versante, fino alla Forcella Predigtstuhl. Sotto, nella Steinerne Rinne, incontro Hans Fiechtl, la nota guida della Zillertal, uno dei nostri migliori arrampicatori. Mi consiglia di ripetere la sua via sulla parete Ovest del Predigtstuhl, dopo di lui già varie volte tentata senza successo. Alla mia domanda su quali difficoltà tecniche presenti, risponde che la parete Ovest del Totenkirchl presenta passaggi meno difficili di quella del Predigtstuhl, che è però in compenso molto più breve.
Tre giorni dopo tentavo la sorte pieno di speranza, scegliendo come punto d’attacco la conca ai piedi del Camino Botzong sulla parete Ovest. La Particolarità di questa salita consiste nel fatto che è tutta estremamente difficile, sempre molto esposta e assai pericolosa per la presenza di colossi rocciosi di ogni genere che minacciano di staccarsi con pauroso fragore in qualsiasi momento. Mi ricordo in special modo una traversata assai delicata verso destra, mediante la quale si raggiunge un ripido canalone, posto esattamente sopra il salto. Poco oltre il salto vi sono molti massi rocciosi che aspettano solo una piccola spinta per precipitare a valle. Per cautela, un paio di metri prima pianto un chiodo e vi infilo i quindici metri di corda che porto sempre con me quando mi avventuro da solo in montagna.
Quale convinto fautore dei principi di Paul Preuss, non manco mai di garantirmi in modo adeguato nei rarissimi casi in cui la sicurezza per la mia persona potrebbe essere resa illusoria dalla presenza di pericoli incombenti.
(Deutschhe Alpenzeitung, 1912/13, 12/I, Nr. 6 giugno 1912: brani scelti.)
Mentre la figura di Preuss domina incontrastata, si fa luce un altro alpinista tedesco di grande valore che, soprattutto sulle Dolomiti, lasciò ampia impronta di sé e dei suoi sistemi modernissimi di arrampicata: Hans Dulfer (1892 - 1915).
Affrontò le Dolomiti nel 1911 ed arrampicò fino al 1914 compiendo numerosissime ascensioni di gran classe, a 20 anni partì per la guerra e cadde sul fronte francese.
Fautore della nuova tecnica, usò i chiodi tanto per l’assicurazione che per le manovre di trazione con la corda. Senza le sue rivoluzionarie innovazioni la tecnica non avrebbe fatto lo straordinario progresso che fece. (Tanto che ancora oggi si dice per una certa tecnica ...“salire in Dulfer”).
Le sue ascensioni sono tra le più interessanti e difficili delle Dolomiti.
Da: La Storia dell’Alpinismo
di: Gian Piero Motti.
Volume 1
pag. 274/277.
Chi pensa che Hans Dulfer fosse un fautore esasperato dei mezzi artificiali è completamente fuori strada: egli era prima di tutto un fortissimo arrampicatore libero, pari a Paul Preuss se non superiore, e, come il viennese, realizzò anche superbe salite in solitaria, senza alcun mezzo artificiale.
Dulfer però si dichiarò favorevole all’impiego dei chiodi e del moschettone ed attraverso studi e sperimentazioni giunse a scoprire una nuova tecnica di progressione e di assicurazione che, seppur con un uso assai limitato di chiodi, permetteva di superare con più sicurezza quei tratti di parete che altrimenti sarebbero stati forse insuperabili senza mezzi tecnici.
Il chiodo naturalmente si prestava a due usi ben distinti: uno di pura assicurazione ed un altro di progressione, dove esso era usato direttamente come appiglio. L’uso delle asole di cordino e delle staffe per introdurvi il piede è molto posteriore e fu soprattutto introdotto e perfezionato da Emilio Comici.
Piuttosto, merito di Dulfer e dei suoi compagni di Monaco (Otto Herzog e Hans Fiechtl) fu lo scoprire particolari di manovre (traversata a corda, detta poi alla Dulfer) che permettevano di superare alcuni passaggi “chiave” con un vero e proprio artificio tecnico.
Comunque in Dulfer l’inibizione a servirsi di mezzi artificiali è ancora assai forte, se si pensa che più volte egli seppe rinunciare ad alcune imprese dove l’impiego di chiodi sarebbe stato troppo grande; oppure, pur munito di chiodi e di moschettoni, seppe superare alcune pareti in prima ascensione senza neppure piantare un chiodo, vincendo difficoltà di V° e V° superiore.
In lui comincia a farsi strada anche il concetto di eleganza del tracciato, che poi sarà esaltato e idealizzato da Emilio Comici.
Ormai l’arrampicata giunge ad essere vera e propria arte, mezzo di espressione e creazione personale, dove non importa più salire e vincere ad ogni costo qualsiasi parete che ancora non sia stata vinta, ma invece vi è scelta del terreno di gioco e dei modi con cui salire.
Più volte gli studiosi d’alpinismo hanno cercato di localizzare l’inizio dell’era del sesto grado in un’impresa singola e ciò fu fatto in occasione della prima salita diretta della parete Nord-ovest del Civetta, compiuta da Emil Solleder e Gustav Lettenbauer (nel 1921).
Va anche detto che ai tempi di Paul Preuss e di Hans Dulfer non esisteva ancora una scala delle difficoltà (che sarà poi proposta nel 1926 e studiata da Welzenbach) e nel giudizio ci si regolava con aggettivi un po’ vaghi come <<facile, difficile, straordinariamente difficile>>.
Senza anticipare i tempi, possiamo solo dire che Willy Welzenbach creò una scala in sei gradi dove il sesto ed ultimo grado costituiva il “limite delle possibilità umane” ed era rappresentato dalla via Solleder al Civetta. (Vedi Willy Welzenbach).
1913 - Hans Dülfer con il compagno Willy von Bernuth realizzano la prima salita in libera della Torre del Diavolo, nel gruppo dei Cadini di Misurina.
1913 - Hans Dülfer apre una nuova via sulla parete Ovest della Cima Grande di Lavaredo con Walter von Bernuth.
1914 - A soli 22 anni, Hans Dülfer si presentò come volontario al Primo Battaglione Bavarese di Sciatori.
Hans Dülfer, Franz Nieberl compì la prima scalata della parete Nord della Kleine Halt